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  • 21/09/2025 15:40

FRATELLI D'ITALIA E IL DEBITO PUBBLICO

Insomma, secondo Fratelli d’Italia è merito del governo Meloni la recente riduzione del debito pubblico e ciò smentisce chi prevedeva che il debito sarebbe arrivato a livelli record. In realtà, le cose non stanno così e il partito di Meloni ha usato i dati in modo fuorviante. A quanto ammonta il debito pubblico Il post di Fratelli d’Italia ha fatto riferimento ai dati mensili più aggiornati sulla finanza pubblica diffusi dalla Banca d’Italia il 15 luglio. Secondo la Banca d’Italia, a maggio di quest’anno il debito pubblico italiano è effettivamente calato di 10 miliardi. Si tratta del primo calo registrato quest’anno, visto che da gennaio era aumentato in ognuno dei mesi precedenti. Nel complesso, rispetto a maggio 2024 il debito pubblico è aumentato di circa 100 miliardi di euro, da 2.924 a 3.053 miliardi di euro. Andamento del debito pubblico italiano tra maggio 2024 e maggio 2025 – Fonte: Banca d’Italia Andamento del debito pubblico italiano tra maggio 2024 e maggio 2025 – Fonte: Banca d’Italia Dall’insediamento del governo Meloni, il debito pubblico italiano è aumentato di quasi 300 miliardi di euro, come mostrano le serie storiche mensili della Banca d’Italia. Tra l’altro, la stessa variazione sul singolo mese è minimale: i 10 miliardi di riduzione rappresentano un calo dello 0,33 per cento rispetto alla mole totale del debito italiano. Il post pubblicato da Fratelli d’Italia, dunque, non smentisce l’articolo del Fatto Quotidiano, che anzi racconta una tendenza effettivamente in atto: il livello raggiunto negli ultimi anni è il più alto di sempre per il debito in termini assoluti. C’è un altro problema però nel post di Fratelli d’Italia. Il partito di Meloni prende in considerazione il valore del debito pubblico in termini assoluti per fare un confronto storico, ma non ha molto senso. Un numero poco sensato? Il debito pubblico in termini assoluti tiene conto dei prezzi correnti dei prestiti contratti dallo Stato, senza però considerarli “al netto” dell’inflazione. Come per ogni altro debito, l’aumento dei prezzi aiuta il debitore. Poniamo che un debitore prenda a prestito 100 euro oggi e debba restituirne 120 domani. Se i prezzi nel frattempo crescono e il potere d’acquisto si abbassa, i 120 euro che dovrà restituire domani saranno “meno costosi” rispetto a 100 euro di oggi. Per esempio, se volessimo comprare una sedia a prestito per 100 euro a queste condizioni, ma il prezzo della sedia salisse a 150 euro nel momento in cui devo restituire il denaro, avrei la possibilità di pagare 120 euro per un qualcosa che in quel momento ne vale di fatto 150. Secondo questa logica, un aumento dei prezzi è conveniente per il debitore, anche quando si tratta di un’intera nazione. Allo stesso tempo, un aumento dei prezzi significa un aumento in valore assoluto del debito: se domani dovrò comprare una sedia a prestito, il prezzo sarà di 150 euro più l’interesse da restituire, proprio perché il costo di beni e servizi, anche quelli che acquista uno Stato, aumenta nel tempo. Quando valutiamo la mole del debito pubblico, però, non bisogna considerare i prezzi, ma la quantità di beni e servizi cui dovremo rinunciare per restituire il debito. Per esempio, avere un prestito da pagare per la sedia potrebbe impedirci di comprare un tavolo o di prendere un taxi perché non abbiamo abbastanza risorse a disposizione. Non ci interessa il prezzo in sé, ma sapere se il nostro budget sarà sufficiente per permetterci qualcosa in più. È la ragione per cui proviamo a ragionare in termini reali: qual è il reale valore della moneta che andiamo a spendere? Che cosa potrei comprare in alternativa con quei soldi? Perché si guarda al rapporto con il PIL Per questo motivo, piuttosto che il debito in termini assoluti, è meglio considerare il rapporto tra il debito e il Prodotto interno lordo (PIL), che indica il reddito generato da una nazione. Questo rapporto ci mostra la nostra reale capacità di ripagare quello che dobbiamo ai nostri creditori. Per capire meglio quello di cui stiamo parlando, possiamo immaginare lo Stato come una famiglia che contrae un prestito. La famiglia guadagna 100 mila euro l’anno e apre un mutuo per 200 mila euro. Un’altra famiglia, con un reddito di 20 mila euro annui, contrae un mutuo da 60 mila euro. Per quale delle due è più probabile che il debito non venga ripagato? Ovviamente ci sarebbero molti fattori da tenere in considerazione, dalla stabilità di quei redditi al passato creditizio delle due famiglie, ma possiamo dire con ragionevole certezza che la famiglia con il debito più alto, quello da 200 mila euro, ha più probabilità di pagare il prestito senza problemi. Questo perché il mutuo vale “solo” il doppio del suo reddito, mentre il debito contratto dalla seconda famiglia vale il triplo. Il discorso per gli Stati nazionali è più complesso, ma il principio è simile: non è così importante il livello del nostro debito pubblico, per esempio rispetto a quello tedesco, che è poco più basso, ma quel che conta è rapportarlo alla nostra capacità di generare nuova ricchezza per ripagare quelle risorse prese a debito, ossia, al PIL. Anche da questo punto di vista, non ci sono indicazioni di un miglioramento. Nel Piano strutturale di bilancio di medio termine, pubblicato a settembre 2024, il governo ha previsto una crescita del rapporto tra debito pubblico e PIL, dal 135,8 al 137,7 per cento tra il 2024 e il 2025. La tendenza generale, dunque, è quella di un aumento e il dato dovrebbe poi rimanere piuttosto stabile nei prossimi anni. Tiriamo le somme Insomma, è vero come dice Fratelli d’Italia che il debito ha registrato un calo a maggio, ma in termini percentuali si tratta di una variazione molto piccola. In più, la riduzione è solo mensile, mentre nell’ultimo anno il debito pubblico italiano è aumentato in termini assoluti. Al di là di questo, Fratelli d’Italia ha preso in considerazione il valore del debito pubblico solo in termini assoluti e non quello in rapporto al PIL, che è un dato più affidabile per comprendere realmente l’andamento del debito. Se consideriamo il rapporto tra debito pubblico e PIL, lo stesso governo Meloni ha previsto un aumento di questo indicatore tra il 2024 e il 2025.

I commenti

Il Bonus bollette 2025 non funziona: perché molte famiglie sono rimaste escluse
Nel 2024 il numero delle famiglie che hanno beneficiato del bonus bollette è sceso a 2,7 milioni rispetto ai 4,5 dell’anno precedente. Tra le cause la revisione dei requisiti Isee decisa dal governo Meloni, che ha abbassato la soglia a 9.530 euro.
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A cura di Giulia Casula
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I bonus bollette sono rimasti in vigore anche per il 2025. Parliamo dello sconto in bolletta per le famiglie che si trovano in difficoltà economiche per alleggerire la spesa di luce, acqua e gas. Rispetto agli anni precedenti, oltre la metà degli aventi diritto non è riuscito ad avere accesso agli aiuti a causa della decisione del governo Meloni di rinnalzare le soglie Isee per ottenerlo. A riportarlo è l'Istat nel suo ultimo monitoraggio sull'andamento dell'economia italiana, che certifica come il numero delle famiglie beneficiarie si sia ridotto drasticamente, passando da 4,5 milioni a 2,7 milioni.

Come funzionano i bonus sociali per luce, acqua e gas
I bonus sociali consistono in agevolazioni che si applicano direttamente sulle bollette di luce, acqua e gas. Sono riconosciuti ai nuclei familiari in condizioni di disagio economico-sociale che rispettano determinati requisiti economici e di fornitura. In particolare, l'Isee deve essere inferiore ai 9.530 euro nelle famiglie con un massimo di tre figli a carico, mentre in quelle con quattro o più figli la soglia sale a 20mila euro.

Perché metà delle famiglie bisognose è rimasta esclusa
Come ricorda l'Istat, i bonus sociali, introdotti per la prima volta nel 2008, sono stati rafforzati nel 2021 per aiutare le famiglie a sostenere le spese per le utenze dopo l'impennata dei costi dell'energia causata dalla crisi pandemica e dalle ricadute del conflitto russo-ucraino. Nel 2021, circa 2,5 milioni di nuclei familiari hanno avuto accesso alle agevolazioni.

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Nei due anni successivi la platea dei beneficiari è stata ampliata innalzando la soglia Isee a 12mila euro nel 2022 e a 15mila nel 2023. La modifica ha permesso a molte più famiglie di godere dello sconto: nel 2022 sono state 3,7 milioni e nell'anno successivo hanno raggiunto addirittura i 4,5 milioni. 

Tuttavia lo scorso anno il governo Meloni ha abbassato drasticamente la soglia Isee, riportandola a 9.530 euro. La misura è stata confermata anche nel 2025 ma con gli stessi paletti. La stretta ha ridotto il numero degli aventi diritto e molte famiglie che negli anni precedenti avevano beneficiato del bonus, si sono viste esclude. In particolare, nell'ultimo anno i nuclei familiari percettori sono stati 2,7 milioni, circa la metà rispetto al 2023.

Tutti i problemi del bonus bollette
Non solo, anche l'importo del bonus si è ridotto passando dal massimo di mille euro nel 2022 ai 500 degli anni successivi. Secondo l'Istat il sostegno ha contribuito al calo delle famiglie in povertà energetica, passate dall'11,2% al 9,8% nel 2021. Analogamente, nel 2022 la percentuale di famiglie in condizioni di povertà energetica, salita al 13,8% a cauda dell'aumento dei prezzi dell'energia, è scesa al 9,5% dopo l'erogazione degli aiuti (grazie anche all'allargamento della platea). Nel 2023 la percentuale è passata dall'11,6% al 9,2%, mentre nel 2024 i bonus hanno ridotto la povertà energetica in misura minore, di 1,6 punti (dal 10,8% al 9,2%).

Restano però delle criticità legate al fatto che molte famiglie non riescono ad ottenere il sussidio perché, come osserva l'Istituto, le soglie di accesso sono esclusivamente legate all'Isee, cioè a un requisito patrimoniale, mentre non tengono conto di altri aspetti come il consumo energetico, che pure possono avere un impatto significativo sui costi delle bollette. Alcune famiglie tra l'altro, non presentano l'Isee e quindi non dispongono di un'attestazione valida per ricevere il contributo.

Le critiche
Il bonus energetico, "misura contro il caro bollette tanto sbandierata dal governo Meloni, è un clamoroso flop", ha affermato la senatrice Raffaella Paita, capogruppo al Senato di Italia viva. "A dirlo sono i dati Istat, ricordati oggi da ‘Repubblica'. La verità è che i sostegni sono stati via via ridotti rispetto al governo Draghi e oggi danno ristoro solo al 17% delle famiglie in difficoltà", ha aggiunto. Critiche anche le associazioni dei consumatori, come l’Unione Nazionale Consumatori, che hanno chiesto di riportare la soglia Isee a quella fissata sotto il governo Draghi.

"Sebbene i dati Istat confermino l'efficacia dei sussidi energetici nel compensare l'impatto dei prezzi per le famiglie più povere, il quadro complessivo resta drammatico. I bonus hanno rappresentato un sollievo parziale, ma non hanno affrontato la radice del problema: l'insostenibile aumento dei costi energetici che continua a colpire le tasche di milioni di famiglie", ha commentato l'Associazione nazionale per la difesa e orientamento dei consumatori (Adoc). "L'aumento delle soglie Isee ha sì ampliato la platea dei beneficiari, ma non possiamo dimenticare una scelta che ha penalizzato pesantemente il ceto medio: il ripristino degli oneri di sistema nelle bollette energetiche. Durante il governo Draghi, questi oneri erano stati eliminati, offrendo un sollievo a tutte le famiglie. La decisione dell'attuale esecutivo di reintrodurli e di ripristinare l'Iva al 10% hanno rappresentato un aggravio ulteriore, colpendo in particolare quelle famiglie del ceto medio che già faticano ad arrivare a fine mese e che difficilmente beneficiano dei bonus", proseguono. "Inoltre, il costo del gas da cui dipende il costo dell'energia elettrica è aumentato nell'ultimo trimestre e gli accordi del nostro governo con il governo Trump per il gas liquefatto americano ci fanno presagire una tendenza al rialzo inevitabile dovuta ai costi più elevati per trasporto e logistica e, quindi, un aggravio di spesa per famiglie e imprese", sottolineano.

Adam - 21/09/2025 22:08

Non tutti i quotidiani leccano i fondoschiena dei politici ma interpretano i dati facendo un favore alla popolazione facilmente ingannabile..


Meloni celebra l’aumento del lavoro povero al Sud
Occupazione Il governo punta sulla propaganda dei dati a fini elettorali . L’uso strumentale dell'Istat sorvola sui bassi salari e sul fatto che in Italia si lavora poco e male






La stantìa liturgia che celebra i dati Istat sull’occupazione quando hanno un segno più, e tace su quelli che rivelano il fatto che l’occupazione prodotta in Italia è fatta in maggioranza di lavoro povero e bassi salari in settori a produttività decrescente come il terziario arretrato (il turismo, per esempio) è stata reiterata ieri dal governo Meloni, e dai suoi corifei, alla ricerca di bandiere da sventolare alle spalle dei lavoratori.

DOPO AVERE SORVOLATO sul fatto che l’aumento dell’occupazione su base annuale (250 mila unità, tra l’altro calati di oltre 150 mila rispetto all’anno scorso) è un aumento di lavoro povero ed è l’esito di una trasformazione quantitativa, e non qualitativa, della precarietà strutturale dei salari e dei redditi, ieri i meloniani hanno trovato un altro record da mettere sul tavolo della cucina elettorale, quella delle prossime elezioni regionali.

LA CRESCITA dell’occupazione, in termini assoluti, è avvenuta, guarda un po’, al Sud dove il tasso di occupazione è ancora più basso della media nazionale (poco più del 62%), uno dei tassi più bassi d’Europa. Logicamente, se il lavoro povero cresce in tutto il paese, lo fa di più lì dove resta più basso per ragioni storiche e strutturali. Nel secondo trimestre 2025 il tasso di occupazione ha raggiunto il 50,1%, dodici punti in meno della media nazionale. Il dato a Sud è il più alto dall’inizio delle serie storiche Istat nel 2004 e rivela che la metà di chi potrebbe lavorare al Sud è fuori dal mercato del lavoro.

TANTO È BASTATO A MELONI per celebrare il fatto di avere sottratto l’odiato e malconcepito «reddito di cittadinanza» a chi è costretto a fare un lavoro in nero, intermittente e precario che non coincide del tutto, e spesso per nulla, con chi esce dalla precarietà e oggi ha un contratto di lavoro ma guadagna cifre che non permettono di arrivare alla fine del mese. Per le destre queste persone, oggi, «sono andate a lavorare» alla faccia della «sinistra» che vuole fare «assistenzialismo». In realtà questa brutale retorica neoliberale, che non è appannaggio solo delle destre postfasciste o leghiste, riduce le persone a numeri e i numeri a spettri. Così si arriva a parlare di lavoro confondendo le mele con le pere.

IL LAVORO POVERO che cresce è quello degli over 50 al lavoro che in Italia superano i 10 milioni. E che, a cominciare dal Sud, resta un’elevata disoccupazione e inoccupazione giovanile e un calo dell’occupazione femminile. Senza contare il fatto che, come ha confermato l’altro giorno il «Rapporto annuale sulla produttività» del Cnel, nel biennio 2022/2024 la crescita dell’occupazione è stata trainata da attività a basso valore aggiunto.

IL MELONISMO ritiene di trarre un dividendo elettorale da un «circolo vizioso», così definito dal Cnel, di bassi salari e scarsa innovazione. Da un lato, l’occupazione cresce; dall’altro lato, la produttività stagna. E non ci sono investimenti sulle persone, solo l’aumento della rendita. Ciò significa che la forza lavoro è scarsamente qualificata c’è un rapido «invecchiamento», oltre che un’inarrestabile erosione del potere di acquisto dei salari peggiorato dal mancato recupero dell’inflazione cumulata tra il 2022 e il 2023.

RIBALTARE questa situazione è fuori dalla portata di Meloni alla quale non interessa cambiare alcunché. La volontà del «centro-sinistra» è da dimostrare. Tale situazione non si cambia mettendo un salario minimo senza trasformare la struttura del mercato, del salario e dello Stato sociale. E ci vogliono investimenti e politiche industriali. Farlo con l’arcigno patto di stabilità Ue e l’aumento della spesa militare del 5% del Pil sarà difficile.

PD E CINQUE STELLE tra gli altri ieri hanno ricordato che il governo ha cancellato la «Decontribuzione Sud» (5,3 miliardi), ha tolto 3,7 miliardi al Fondo di perequazione infrastrutturale, 1 miliardo al credito d’imposta della Zes Unica. E boccheggia per i ritardi della spesa reale del Pnrrche ha dato comunque una spinta congiunturale all’occupazione, insieme a qualche bonus edilizio che ha premiato la classe media superiore che ha le risorse per ristrutturarsi la casa di proprietà. Se la gestione del Pnrr che dovrebbe salvare l’Italia è responsabilità di Meloni &Co. non va dimenticato che la sua ispirazione è stata del governo Conte 2, e soprattutto di Draghi, sostenuti da molte delle forze oggi all’opposizione. Per parlare di lavoro servono respiri lunghi.

Dante - 21/09/2025 22:06

La stabilità politica dell’Italia, spesso considerata invidiabile, merita un’analisi approfondita. Le recenti affermazioni di Antonio Tajani, riportate al Tg4, offrono spunti di riflessione su un tema complesso. Nonostante l’apparente tranquillità del Paese, la realtà è ben più articolata e preoccupante.

Il contesto europeo: una stabilità apparente
Quando Tajani afferma che l’Italia è un Paese stabile, è opportuno interrogarsi su cosa si basi tale stabilità.


L’Unione Europea sta attraversando una crisi senza precedenti, con tensioni politiche, economiche e sociali sempre più evidenti. Dati recenti indicano che molti Stati membri affrontano instabilità interna, e l’Italia non è esente da queste dinamiche. Secondo i rapporti di Eurostat, la disoccupazione giovanile in Italia supera il 30%, un dato allarmante.


L’instabilità economica di Paesi come la Grecia e la Spagna influisce sull’intera area euro. Si potrebbe sostenere che l’idea di una stabilità italiana rappresenti un’illusione, un tentativo di distogliere l’attenzione dai problemi reali. Il debito pubblico italiano, che supera il 130% del PIL, costituisce un campanello d’allarme che non può essere trascurato.


La stabilità politica italiana è più fragile di quanto comunemente si pensi. Le recenti elezioni hanno portato a un Parlamento frammentato, con alleanze che si formano e si disgregano rapidamente. Ciò non rappresenta un segnale di una democrazia sana, ma piuttosto una situazione potenzialmente esplosiva. La stabilità, in assenza di crescita sostenibile e fiducia dei cittadini, diventa un termine vuoto.

L’immobilismo politico degli ultimi anni, lungi dall’indicare stabilità, è segno di stagnazione. La mancanza di riforme significative ha alimentato un clima di sfiducia tra i cittadini, sempre più distanti dalla politica. La realtà è meno politically correct: la stabilità celebrata da Tajani potrebbe nascondere le profonde crepe della nostra società.


Conclusioni disturbanti e invito al pensiero critico
La realtà è chiara: l’Italia può apparire stabile, ma sotto la superficie emergono segnali d’allerta innegabili. La vera stabilità non è solo un concetto politico, ma un sentimento collettivo che si costruisce quotidianamente. Ignorare i problemi reali del Paese potrebbe condurci verso una crisi ancor più profonda.

È fondamentale riflettere su questi temi e non accontentarsi delle narrative ufficiali. Un’analisi critica è essenziale per comprendere il presente e costruire un futuro migliore. Non lasciarsi ingannare dalle apparenze è cruciale: la vera stabilità si costruisce con impegno e responsabilità, non con illusioni.


via via

silvia - 21/09/2025 20:30

I dati non sono di Fdi ma dati ISTAT, ci vorreste far credere che gli asini volano ma oggi c’è chi si aggiorna. Italia paese più stabile d’Europa, Meloni stimata in tutto il mondo. Avanti così Giorgetti che la Schlein e i 5 stelle rifaranno i girotondi!!!!

anonimo - 21/09/2025 18:12

Ma li legge i giornali? Io si , dati ISTAT Italia paese più stabile d’Europa, avanti così è la strada giusta. Forza Giorgetti , avanti Meloni! Stimati in tutto il mondo

anonimo - 21/09/2025 18:09

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