Malati psichiatrici autori di reato, affidamento alla psichiatria scelta ottimale o la meno peggio?
Malati psichiatrici autori di reato, affidamento alla psichiatria scelta ottimale o la meno peggio?
di Andrea Angelozzi
di fronte alle varie lettere che recentemente si sono soffermate su come incrementare l’intervento dei servizi di salute mentale nel caso dei malati psichiatrici autori di reato, mi permetto una voce dissonante, rendendomi peraltro conto del suo andare sgradevolmente controcorrente.
Il problema che pongo è se davvero al malato psichiatrico vada riservato un percorso diverso nel momento in cui compie un reato, operando con proscioglimenti e trattamenti in strutture sanitarie, diversamente dal reo comune.
Nel momento in cui si decide infatti di valutare la sanzione in relazione al reo e non al reato, si aprono a mio parere una serie di questioni, fastidiose ma non per questo irrilevanti.
La prima riguarda la nozione di responsabilità, che considera che vada punito solo quanto avvenuto con la libertà e la comprensione delle conseguenze. Mentre si ritiene che questa condizione possa essere gravemente lesa in talune condizioni patologiche, si dimentica, in particolare per la parte che riguarda la libera scelta del soggetto, quello che ci ricorda la letteratura, e cioè il valore determinante della situazione in cui la persona si trova, nei cui confronti il valore di variabile degli aspetti patologici è molto modesto. In maniera analoga al suicidio che richiede in maniera più determinante della depressione della persona, specifiche indispensabili situazioni di tempo, modo e luogo, gli omicidi risentono di oltre 30 variabili, la maggior parte delle quali legate all’ambiente ed alla situazione. Queste entrano al più nelle attenuanti, mentre la patologia rappresenta elemento di proscioglimento, creando di fatto due metri molto diversi nella valutazione del reo e del reato.
La seconda questione riguarda i criteri spesso vaghi, e (per definizione del DSM stesso) culturalmente basati, di molte diagnosi psichiatriche, che non permettono con chiarezza di definire non solo l’ambito patologico in cui si muove il reo o quanto sia stato determinante per il reato, ma se davvero sia così netta la distinzione rispetto ai modi di essere o di comportarsi usuale delle persone. Questo emerge in maniera netta con i disturbi di personalità, non a caso spesso al centro dei dibattiti sul loro diritto al proscioglimento. MI verrebbe da dire che, con il progressivo espandersi pervasivo delle diagnosi, incrementate ad ogni edizione del DSM, ormai - per citare Karl Kraus - la vera malattia che si sta diffondendo in psichiatria è il fare diagnosi.
La terza riguarda la curabilità delle situazioni psichiatriche che, a differenza della possibilità di pentimento del reo, conduce comunque al di fuori del carcere. Una esistenza dignitosa ed adeguata si raggiunge spesso in molte patologie, purché sia assicurata una assistenza ed una compliance costanti. Per molte altre no. Sono d’accordo che la psichiatria non può impegnarsi solo in quello che è facile da curare rifiutando il resto, ma rimane da chiarire quale diventa il suo ruolo con qualcosa che si dimostra non curabile. Cosa diventa allora l’affido di molte patologie alla psichiatria? Sperimentazione? asilo compassionevole, missione custodialistica, cosa altro?
Mi domando allora se sia così ovvio ed automatico il proscioglimento per i malati psichiatrici che abbiano commesso un reato o se rappresenti solo un tentativo di tutela per questo tipo di pazienti, a fronte del drammatico problema delle carceri, che non assicura alcuna forma di riabilitazione e scarse tutele sanitarie per chi, per qualunque patologia, sia incarcerato. Se quindi il problema sia che l’affidamento alla psichiatria sia la scelta ottimale o semplicemente quella meno peggio.
Andrea Angelozzi
Psichiatra
quotidiano sanità