• 0 commenti
  • 03/05/2023 21:26

C’erano una volta i manicomi giudiziari.

REMS – Storia di un fallimento tipicamente C’erano una volta i manicomi giudiziari. In caso di reato commesso in stato di infermità mentale tale da togliere la coscienza o la libertà dei propri atti, l’individuo, seppure prosciolto perché non punibile, poteva essere consegnato all’autorità di pubblica sicurezza, laddove il giudice ne avesse stimato pericolosa la liberazione. L’autorità competente provvedeva in seguito al ricovero provvisorio in un manicomio in stato di osservazione; se dopo tale periodo la prognosi di pericolosità veniva confermata, il giudice ne ordinava il ricovero definitivo. Con la riforma dell’ordinamento penitenziario, i manicomi giudiziari furono sostituiti dagli ospedali psichiatrici giudiziari, e sempre in funzione di protezione sociale rispetto a soggetti totalmente o parzialmente incapaci di intendere e di volere ma pericolosi per la privata e pubblica incolumità. Il ricovero in un ospedale psichiatrico era una delle misure di sicurezza disciplinate dagli articoli 199 e seguenti del codice penale. Ai sensi dell’articolo 202, comma 1, queste misure «possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato». È considerato socialmente pericoloso l’autore di tale fatto «quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati» (articolo 203, comma 1). Le misure di sicurezza (ordinate dal giudice penale nel suo giudizio di merito, o in un provvedimento successivo, nel caso di condanna, durante l’esecuzione della pena o durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena – articolo 205) possono essere revocate solo se le persone ad esse sottoposte hanno cessato di essere socialmente pericolose (articolo 207, comma 1). Decorso il periodo minimo di durata, stabilito dalla legge per ciascuna misura di sicurezza, il giudice riprende in esame le condizioni della persona che vi è sottoposta, per stabilire se essa sia ancora socialmente pericolosa. Qualora la persona risulti ancora pericolosa, il giudice fissa un nuovo termine per un esame ulteriore. Nondimeno, quando vi sia ragione di ritenere che il pericolo sia cessato, il giudice può, in ogni tempo, procedere a nuovi accertamenti (articolo 208). Nei fatti, accadeva questo. Un soggetto che aveva commesso un reato grave e che non doveva espiare la sua pena in carcere per ragioni di infermità mentale, ma che veniva giudicato socialmente pericoloso, transitava per una casa di cura e custodia o per un ospedale psichiatrico, dove subiva un trattamento di contenimento e di aiuto farmacologico. Scaduto il periodo minimo di durata di detenzione (due anni, cinque anni o dieci anni per il ricovero in ospedale psichiatrico, a seconda della gravità della pena prevista per il reato commesso), il soggetto si ripresentava davanti al Giudice di sei mesi in sei mesi, per essere sottoposto a nuova valutazione di pericolosità, sulla base di una relazione medica che fotografava le sue condizioni psichiche del momento. Succedeva che, per i casi più eclatanti di “follia”, il rinvio era sine die – specie se ci si rendeva anche autori, durante il trattamento, di gesti di autolesionismo, di resistenza violenta verso il personale di sorveglianza o di crimini verso altri ospiti della struttura -; altri, apparentemente “guariti”, uscivano e commettevano nuovamente delitti; altri ancora, magari entrati per reati minori, si istituzionalizzavano e semplicemente non uscivano più, impossibilitati com’erano, dopo anni di privazione della libertà, ad affrontare la “realtà esterna”. Certo, c’erano anche esempi di ospedali psichiatrici “virtuosi” e all’avanguardia, come quello di Castiglione delle Stiviere; questo ospedale ha rappresentato un’eccezione rispetto alla restante parte degli istituti italiani di questo tipo. Era l’unico a non essere gestito dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, bensì tramite una convenzione con l’Azienda Ospedaliera “Carlo Poma” di Mantova, ed è stato l’unico OPG (ospedale psichiatrico giudiziario) italiano con una sezione femminile. Era situato in un bel parco, richiamava per caratteristiche una struttura sanitaria più che una struttura detentiva, aveva stanze per gli ospiti in buone condizioni e tra di loro differenziate nella dotazione di accessori e arredamento, a seconda dell’indipendenza mostrata dall’internato e dell’affollamento della sezione. Gli spazi comuni interni ed esterni erano ampi e la capienza complessiva sostanzialmente rispettata; esisteva poi una struttura comunitaria esterna per l’esecuzione delle misure di sicurezza in “regime di licenza esperimento”: tale struttura era del tutto paragonabile ad una normale abitazione civile. Non erano stati segnalati, fino al 2015, per quantità e qualità, eventi critici tipicamente riscontrabili nelle strutture carcerarie; in particolare, erano stati rari i suicidi e l’applicazione sistematica di contenzioni. Eppure, a parte questo esempio a suo modo virtuoso, un'indagine parlamentare approvata nel 2011 dalla apposita commissione d’inchiesta istituita presso il Senato accertò le condizioni di estremo degrado degli ospedali psichiatrici giudiziari e la generalizzata carenza di quegli interventi di cura che avevano motivato l'internamento dei soggetti a rischio sociale. Il legislatore decise perciò di trasformare gli ospedali psichiatrici in REMS, acronimo che sta per Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Le nuove residenze sono state concepite come strutture residenziali caratterizzate da una logica radicalmente diversa dai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, caratterizzati da una concezione (quasi) esclusivamente custodiale. Le REMS – pensate, invece, in funzione di un percorso di progressiva riabilitazione sociale -, sono strutture di piccole dimensioni che devono favorire il mantenimento o la ricostruzione dei rapporti con il mondo esterno, alle quali il malato mentale può essere assegnato soltanto quando non sia possibile controllarne la pericolosità con strumenti alternativi, per esempio con l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale. Correva l’anno 2012, quando la legge n. 9 del 17 febbraio, convertendo l'art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011 n. 211 (“Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”), stabilì il “completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Termine per il definitivo completamento di tale processo: 31 marzo 2013. Il testo originario della norma (comma 4, art. 3-ter) prevedeva infatti che a decorrere da tale data le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell'assegnazione a casa di cura e custodia avrebbero dovuto essere eseguite “esclusivamente all'interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2”, ovvero le REMS. Successivamente, con locuzione più perentoria, il legislatore è nuovamente intervenuto stabilendo che “dal 1° aprile 2014 gli ospedali psichiatrici giudiziari sono chiusi”. L’espressione più decisa non è però servita, perché ci è voluto un nuovo termine (31 marzo 2015) e un nuovo atto normativo per ribadire la chiusura degli OPG. D’altra parte, il d.l. n. 52 del 2014, che ha definitivamente (e apparentemente) chiuso la faccenda, aveva l’autoironico titolo “disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, cioè superamento di una cosa che era già stata normativamente superata. Le principali differenze “operative” tra le nuove REMS e i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari sono essenzialmente queste: - ogni residenza può ospitare, in teoria, un numero limitato di persone (20); - la gestione interna della residenza è di esclusiva competenza del sistema sanitario nazionale, con programmi di percorsi terapeutico-riabilitativi individuali predisposti dalle Regioni attraverso i competenti dipartimenti e servizi di salute mentale delle proprie aziende sanitarie; - il giudice penale dispone il ricovero in una residenza, quale misura di sicurezza, soltanto “quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale” (così la legge n. 81 del 2014); - il ricovero nella residenza non può durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima, fatta eccezione che per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo, per i quali si continuano ad applicare le vecchie regole (si esce soltanto quando non si è più socialmente pericolosi). Obiettivo: focalizzarsi sulla malattia e non più soltanto sulla detenzione. Ma cosa è concretamente accaduto? Torniamo per un attimo a Castiglione delle Stiviere. A luglio del 2021, in Italia, erano attive circa 30 REMS con 600 posti letto. Regione Lombardia, invece di aprire più residenze nelle diverse province di competenza, aveva deciso di dividere l’ex ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere in 8 comunità, per un totale di 160 posti. Ne sono derivati problemi strutturali (adeguamento del vecchio edificio alla nuova realtà, con connessa realizzazione di adeguati lavori di ristrutturazione e ampliamento), problemi di sicurezza (assenza di vigilanza competente) e problemi di assistenza medica (carenza cronica di medici internisti o di medicina generale, accanto agli psichiatri e agli psicologi, con aumento esponenziale della frequenza degli invii in ospedale dei “residenti”). D’altra parte, la Corte costituzionale ha messo nero su bianco in una recente sentenza (1) – e dopo un’approfondita istruttoria – che l’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche presenta numerosi profili di frizione con i principi costituzionali, che il legislatore dovrebbe eliminare al più presto. Dall’istruttoria disposta dalla Corte è emerso, in particolare, che sono tra 670 e 750 le persone attualmente in lista d’attesa per l’assegnazione ad una REMS; che i tempi medi di attesa sono di circa dieci mesi, ma anche molto più lunghi in alcune Regioni; e che molte di queste persone – ritenute socialmente pericolose dal giudice – hanno commesso gravi reati, anche violenti. Dal momento che l’assegnazione alle REMS resta però nell’ordinamento italiano una misura di sicurezza, disposta dal giudice penale non solo a scopo terapeutico ma anche per contenere la pericolosità sociale di una persona che ha commesso un reato, secondo la Corte è necessario rispettare il principio fondamentale vigente in ordine alle misure di sicurezza e ai trattamenti sanitari obbligatori, ovvero la riserva di legge. Vi deve essere, in altri termini, una legge dello Stato a disciplinare la misura, con riguardo non solo ai “casi” in cui può essere applicata ma anche ai “modi” con cui deve essere eseguita. Al contrario, oggi la regolamentazione delle REMS è solo in minima parte affidata alla legge, essendo per il resto rimessa ad atti normativi secondari e ad accordi tra Stato e autonomie territoriali, che rendono fortemente disomogenee queste realtà da Regione a Regione. La Corte ha poi sottolineato che a causa dei suoi gravi problemi di funzionamento il sistema non tutela in modo efficace né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche potrebbe nuovamente realizzare, né il diritto alla salute del malato, il quale non riceve i trattamenti necessari per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società. Inoltre, la totale estromissione del Ministro della Giustizia da ogni competenza in materia di REMS – e dunque in materia di esecuzione di misure di sicurezza disposte dal giudice penale –, non è compatibile con l’articolo 110 della Costituzione, che assegna a tale Ministro la responsabilità dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Come spesso ultimamente accade, però, la Corte ha ritenuto di non poter dichiarare illegittima la normativa in questione, perché da una simile pronuncia deriverebbe “l’integrale caducazione del sistema delle REMS, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG”, con la conseguenza di “un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”. Di qui il monito al legislatore affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema, che assicuri assieme: – un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza; – la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività; – forme di idoneo coinvolgimento del Ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario. Nel frattempo, però, la Corte europea dei diritti dell’uomo, molto più pragmaticamente, ha condannato lo Stato italiano per la violazione degli articoli 3, 5 e 6 della Convenzione perpetrata ai danni di un cittadino sottoposto a misure detentive applicate in regime carcerario ordinario, nonostante le decisioni dei giudici che ne avevano accertato la responsabilità penale ne avessero disposto il ricovero in una REMS, rivelandoci al di là di ogni ragionevole dubbio la “mostruosità” del nuovo sistema creato dal legislatore (2). Nel caso di specie, il ricorrente dinanzi alla CEDU ha contestato il suo mantenimento illegale in regime carcerario ordinario e l’inadeguatezza delle sue condizioni di detenzione, che si erano accompagnate alla carenza di un trattamento adeguato ai suoi disturbi psichiatrici. Si tratta di una vicenda giudiziaria alquanto complicata (vedi per approfondimenti l’articolo recentemente pubblicato sul sito), ma che si può riassumere così: un soggetto bipolare e dipendente da droghe commette crimini quando è fuori dal carcere e atti autolesionistici quando è dentro il carcere; il Giudice penale decide che per la sua pericolosità e la sua infermità mentale deve essere ricoverato in una REMS ma la lista di attesa è lunga e il soggetto, nel frattempo sottoposto a continue condanne e misure restrittive cautelari, continua a “rimbalzare” tra libertà vigilata e galera. I Giudici europei hanno affermato che il mantenimento in stato detentivo in ambiente penitenziario ordinario, nonostante il parere contrario degli psichiatri che lo seguivano, ha impedito all’interessato di beneficiare di una cura terapeutica adeguata al suo stato di salute mentale, così da aggravare le sue condizioni e da costituire un trattamento inumano e degradante, vietato dall’articolo 3 della Convenzione. Inoltre, la Corte EDU ha definito la privazione della libertà del ricorrente, subita a partire dal 21 maggio 2019, come “illegale”, condannando lo Stato italiano a versare a costui la somma di euro 36.400 per danno morale e di euro 10.000 per le spese. I passaggi importanti di questa sentenza, ai nostri fini, sono i seguenti: - la «detenzione» di un infermo di mente può essere considerata «regolare» soltanto se attuata in un ospedale, in una clinica o in un altro istituto appropriato e la misura della detenzione in una REMS ha lo scopo non solo di proteggere la società, ma anche di offrire all'interessato le cure necessarie per migliorare, per quanto possibile, il suo stato di salute e permettere in tal modo di attenuare o gestire la sua pericolosità; - tuttavia, nel caso di specie, è stato accertato che l’interessato, nonostante avesse bisogno di un trattamento appropriato al fine di ridurre il pericolo che egli rappresentava per la società, non era stato trasferito in una REMS, neanche dopo la sentenza con la quale ne era stata ordinata la sua liberazione, ed era stato mantenuto in detenzione in regime carcerario ordinario, in cattive condizioni, senza beneficiare di un percorso terapeutico individualizzato; - lo Stato è tenuto, nonostante i problemi logistici e finanziari, ad organizzare il proprio sistema penitenziario in modo da assicurare ai detenuti il rispetto della loro dignità umana, di modo che il ritardo nell'ottenimento di un posto in una struttura adeguata è accettabile soltanto se breve e debitamente giustificato; - nel caso esaminato, le autorità competenti non hanno cercato attivamente una soluzione né hanno dimostrato di essersi sforzate di superare gli ostacoli che si frapponevano all'applicazione della misura disposta dal Giudice penale. Morale della favola: per più di un anno non sono stati creati nuovi posti all’interno delle REMS né è stata trovata un'altra soluzione per l'interessato, nonostante esigenze pressanti e richieste reiterate. E’ successo così che un individuo condannato per reati violenti, fuori controllo e socialmente pericoloso, invece di avere adeguata protezione per sé e per gli altri, ha continuato a sopravvivere fuori e dentro dal carcere in balia del sistema, e poi è stato addirittura risarcito dal suo Stato di appartenenza – e dunque da tutti noi - per la violazione dei suoi più basilari diritti umani. Sembrerebbe di poter concludere, alla luce di questa paradossale vicenda, che l’eliminazione dei brutali ospedali psichiatrici giudiziari in favore delle più moderne e umane residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza abbia partorito il classico topolino. L’infermo di mente, socialmente pericoloso, e che si è già macchiato di crimini violenti, è ancora più solo di prima. Né ricovero adeguato – la lista di attesa è infinita – né carcere, perché altrimenti occorre pure (e giustamente) risarcirlo. Forse qualcosa è sfuggito al nostro ineffabile legislatore, che ha fatto come al solito una bellissima riforma di principi e di sistema senza investire un euro. C’erano una volta i manicomi giudiziari. [1] Sentenza n. 22 del 2022 (camera di consiglio del 15 dicembre 2021, depositata il 27 gennaio 2022) [2] Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 24 gennaio 2022 - Ricorso n. 11791/20 Primogrado.com

Gli altri post della sezione

La “cocaina rosa”

L’allarme dei medici: « ...