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  • 04/07/2024 18:10

Il Comune dedica un parco alla militante fascista Norma Cossetto

Il Comune dedica un parco alla militante fascista Cossetto È di oggi la notizia che il Comune di Lucca intitolerà un parco giochi a San Marco, nei pressi della scuola primaria, a Norma Cossetto, da anni divenuta icona dell'estrema destra, che la presenta in maniera propagandistica come "studentessa martire, simbolo della tragedia delle foibe e delle violenze perpetrate ai danni dei nostri connazionali in Istria". L'intitolazione fa seguito a una mozione del 2021, presentata non a caso dall'allora consigliere di CasaPound Barsanti e approvata all'unanimità dal Consiglio comunale, incredibilmente durante la seduta dedicata alla Shoah (nella stessa seduta, Barsanti si astenne sulla proposta di concedere la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz). Ma chi era in realtà Norma Cossetto, e da che tipo di famiglia proveniva? In un Comunicato stampa, il Comune afferma che "i suoi genitori, Giuseppe e Margherita, erano possidenti terrieri non facoltosi ma benestanti secondo gli standard dell'epoca". Viene omesso un "piccolo" dettaglio: Giuseppe Cossetto era aggregato al 134° Battaglione d’assalto delle Camicie Nere, un reparto impegnato, sotto il comando tedesco, nelle azioni di rastrellamento antipartigiano. Norma Cossetto era invece una militante del gruppi fascisti universitari, ed è per questo che fu uccisa, non perché italiana. L'impegno di Norma Cossetto nel partito fascista fu riconosciuto anche dopo la sua morte, e durante l'occupazione nazista le fu intitolato un reparto militare femminile della Repubblica Sociale Italiana. Cossetto, è stata dunque da subito un simbolo per la RSI e per le forze di occupazione, uno strumento di battaglia ideologica. La sua tragica fine è stata sottratta alla verità storica per farne un'arma retorica. Se Norma Cossetto rappresenta simbolicamente qualcosa, non è l'italianità, bensì la sua versione estremista e aggressiva, che in quell'epoca si incarnava nel regime fascista. Così infatti è sempre stata ricordata da chi ne condivideva il pensiero politico. Alla luce di tutto questo, è sconcertate quanto sta avvenendo.

I commenti

Io non mi voglio minimamente sostituire al Direttore di questa testata, il quale ha una capacità, in me ancora assente, di rimanere superpartes non per ipocrisia ma per maturità psicologica e spirituale, che mi ha sempre lasciato sbalordito, e che ammiro quasi religiosamente. C'è qualcosa di sovrumano nella capacità di accogliere tutto, non alla cieca, ma senza giudicare. Io venero quell'uomo e non voglio sostituirmi a lui. Ma la mia lamentela permane: il mio commento è un commento, di lunghezza assolutamente coerente con infiniti altri; il papiro sui poveri fascisti innocenti a malapena mi carica la pagina il cellulare da tanto che è lungo, per non parlare poi dei contenuti, non ho idea di chi lo ha postato ma associare la parola fascista alla parola innocente secondo me è follia, i fascisti erano demoni senza un'anima, assassini sadici a sangue freddo, giocolieri del genocidio. Invito chiunque non l'abbia mai fatto a guardare Le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.

anonimo - 05/07/2024 22:19

Le atrocità sono tutte lunghe Purtroppo fasciste o partigiane

Peppe - 05/07/2024 20:01

Il suo post è molto lungo come commento oltretutto, quindi non è obbligato a leggerne altri comunque a lei non graditi o meno .

Ci sono post lunghi o corti importante siano correttamente leggibili e/o criticabili nel loro significato
Mica può sostituirsi lei a un Direttore di un blog per le sue pretese?

@, per la redazione - 05/07/2024 14:13

Ho sempre onorato lo spirito di non censurare nulla ma il commento prima di me è un libro intero. Non ne commento i contenuti allucinanti, ma il fatto di essere troppo lungo. Al di là di quello, non credo abbia senso il contenuto, dove si parla dell'onore di poveri bravi ragazzi fascisti e di innocenti fascisti e roba simile, leggerlo è stato comunque molto istruttivo, io come nipote di partigiano lo so benissimo da sempre che due terzi dei partigiani erano criminali fatti evadere per ingrossare le fila, e so benissimo che non fu una guerra di liberazione ma una sorta di genocidio contro i fascisti anche a guerra finita, lo so benissimo e non l'ho mai negato, ma coi fascisti che vuoi fare? Per aderire ad una psicologia come quella fascista devi avere dei danni nel cervello, il Fascismo non è un credo politico ma un culto sadomaso andato fuori controllo, un club per serial killer, una mafia alla luce del sole, lo sterminio sistematico è l'unica via, o torneranno sempre, e i partigiani lo sapevano. Le Foibe, ecco quelle non hanno giustificazione, lì non si trattava di ritorsioni antifasciste ma di guerre di territorio, ma questa è un'altra storia. Non sono inoltre d'accordo che i partigiani fossero al soldo dell'URSS, la verità è molto più semplice, erano dei disperati, poco più che predoni, che combattevano contro un tremendo oppressore guidati dalla fame (intendo quella fisica) e dall'odio, e dalla premura di uccidere chiunque avesse mai avuto a che fare col Fascismo anche solo indirettamente. Se ne potrebbe parlare all'infinito ma con commenti come il mio, non interi libri postati come commenti. Rassicuro comunque che se si deciderà di non limitare la lunghezza dei commenti lo prenderò come un gesto non di disinteresse ma di amore per la libertà, che il Direttore di questa testata tanto strenuamente difende, con mio assoluto rispetto.

anonimo - 05/07/2024 13:15

"L'accenno al padre e alla famiglia è vergognoso". Non a caso è stato fatto da voi fasci, che avete provato a dipingerli come due poveri fiammiferai, guardandoci bene dal ricordare che il papà era un gerarca fascista molto attivo. Come la figlia, del resto.

anonimo - 05/07/2024 10:13

Fascisti: spietati criminali o spietati criminali?

anonimo - 05/07/2024 09:55


PARTIGIANI: EROI O SPIETATI CRIMINALI?
Pubblicato d


La Senatrice Liliana Segre, con tutto il rispetto dovuto alla sua persona ed alla sua storia di sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti, ormai è dappertutto, invitata, celebrata, scortata ed eletta a simbolo di antirazzismo, antifascismo e antiodio, da parte della sinistra in genere, quasi fosse l’unica testimone vivente a ricordarci che in Italia è esistito il nazismo, il fascismo, la shoah e le leggi razziali e, per questo, guai a “negarle” la cittadinanza onoraria nelle varie città italiane o a non “alzarsi in piedi per applaudire” ogni volta che si parla di lei. Dei crimini fascisti e nazisti ormai sappiamo tutto, o quasi, tuttavia la maggior parte delle persone conosce poco o nulla di quella che, negli anni 1943-1946, fu una vera e propria guerra civile italiana, con migliaia di morti, tra cui molti innocenti. Quelli che poi ne sono a conoscenza, giustificano gli eventi, perché sono convinti che, in caso di eccessi da parte dei partigiani, nella maggior parte dei casi si trattò di giustificati regolamenti di conti, o ripicche verso chi, durante il regime fascista, ne aveva approfittato per prevalere sul prossimo. Ma la realtà fu ben diversa, perchè le fosse comuni, le foibe e la maggior parte degli omicidi portati a termine dalle brigate di partigiani comunisti, con ferocia inaudita, avevano solo lo scopo di eliminare fisicamente i possibili avversari del comunismo sovietico, che si voleva instaurare a guerra finita. La causa di queste stragi non fu solo la vendetta, ma anche il calcolo spietato di una minoranza, che giunse ad uccidere i sacerdoti solo perché tali, gli altri partigiani, non comunisti e persino i propri compagni che non si allineavano ai dettami del Partiti.



Sopra: il famigerato “Triangolo della morte”, tra le città di Bologna, Reggio Emilia e Ferrara, dove, fra il 1943 e il 1946, furono barbaramente uccise dai partigiani comunisti 3.976 persone. Reggio Emilia, definita Città della Resistenza, “contava tra le sue fila un comandante partigiano che incassava centinaia di milioni, parzialmente versati alla sezione Anpi reggiana, la stessa che ha definito molti partigiani locali, assassini e killer spietati, dediti alle esecuzioni sommarie” (dal libro di Gianfranco Stella, intitolato Compagno Mitra, che il figlio del comandante partigiano definito il boia Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bulow, vorrebbe censurare e ritirare dal commercio).


Il lato criminale della resistenza
Sappiamo molto poco, o quasi niente, del lato criminale della resistenza, fatto di processi sommari, fucilazioni, fosse comuni, soldati uccisi sui letti di ospedale o prelevati dalle prigioni e freddati con un colpo alla nuca, di violenze e stupri ai danni delle ausiliarie e di donne fasciste. In molti conoscono la triste vicenda dei 7 fratelli Cervi, uccisi dai fascisti, ma quanti conoscono la dolorosa storia dei 7 fratelli Govoni, tra cui una donna, assassinati dai partigiani, perché uno di essi vestiva la camicia nera? Commemoriamo giustamente le 365 vittime della strage nazista delle Fosse Ardeatine, invece la storia non ci dice nulla della orribile strage di Oderzo dove, a guerra finita, 598 tra Allievi Ufficiali e militi della Guardia Nazionale Repubblicana furono fucilati dai partigiani e gettati nel Piave, dopo che si erano arresi ed avevano deposto le armi. Ma è inconcepibile che i sostenitori dell’eroismo partigiano a tutti i costi, dopo aver negato per decenni i loro crimini, hanno ammesso, con evidente imbarazzo, che “in effetti qualche errore e qualche eccesso effettivamente ci furono”, ma, secondo una tesi veramente vergognosa, quei crimini sono pienamente giustificati dal fine, perché tra i partigiani c’era chi “combatteva per la libertà”, mentre dall’altra c’erano i “sostenitori della tirannide nazifascista”.

I partigiani erano davvero “patrioti e combattenti per la libertà”?
Il movimento partigiano era estremamente variegato, ma politicamente egemonizzato dal Partito Comunista Italiano, all’epoca diretta emanazione della Russia Sovietica, da cui prendeva ordine tramite Togliatti, stretto collaboratore di Stalin. Obiettivo dichiarato di quei partigiani, una volta sconfitto il fascismo, era quello di far diventare l’Italia uno stato comunista satellite dell’Unione Sovietica e di instaurare nel nostro Paese la dittatura dei proletari, per cui non si capisce su quale base logica e storica i partigiani possano essere definiti “patrioti e combattenti per la libertà”. Se l’Italia oggi è una Repubblica democratica non è certo per merito dei partigiani, ma in virtù della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, decretata a Yalta nel 1945, da cui scaturì la nostra collocazione nel settore occidentale e la conseguente dipendenza dagli Stati Uniti. Il contributo dei partigiani alla sconfitta tedesca fu storicamente del tutto marginale, se lo rapportiamo all’enorme potenziale bellico degli alleati, tant’è che le fila partigiane s’ingrossavano solo dopo che l’esercito tedesco si ritirava sotto l’avanzata degli angloamericani. Peraltro, gli stessi americani avevano una scarsa considerazione dei partigiani e li tolleravano solo perché facevano il lavoro sporco al posto loro, come: assassinare i gerarchi fascisti e fare attentati dinamitardi, per suscitare la rappresaglia tedesca, che fu quasi sempre spietata e spropositata. Il 25 aprile del 1945 Mussolini era a Milano e solo dopo la sua partenza per Dongo, dove trovò la morte, i partigiani liberarono il capoluogo lombardo, dedicandosi ad una vera e propria mattanza nei confronti di fascisti o presunti tali, compresi i loro familiari, come testimoniano le lapidi al Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano, che raccoglie le spoglie di oltre un migliaio di fascisti, molti dei quali barbaramente assassinati o fucilati, anche oltre il 25 aprile, dopo aver deposto le armi. Anche la Russia di Stalin contribuì in maniera determinante alla sconfitta della Germania nazista, pagando un pesante tributo di sangue, non per portare in quelle terre democrazia e libertà, ma al solo scopo di estendere il suo dominio su tutto l’est europeo.

Guerra di liberazione o guerra civile?
La definizione “guerra di liberazione”, tanto cara ai partigiani, mi sembra impropria, perché sarebbe molto più corretto parlare di classica e tragica guerra civile, in quanto i fascisti erano italiani, esattamente come i partigiani. Anche la presunta invasione nazista dell’Italia è un clamoroso equivoco storico, semplicemente perché i tedeschi non invasero l’Italia, c’erano già, infatti, dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, il Governo monarchico di Badoglio chiese aiuto all’alleato tedesco, per contrastare gli anglo americani che, nel frattempo, erano sbarcati in Sicilia. I soldati italiani e tedeschi si ritrovarono a combattere spalla a spalla contro l’invasore americano, fino all’8 settembre 1943, quando il Re e Badoglio si schierarono disinvoltamente dalla parte del nemico, scatenando l’ira di Hitler e lasciando allo sbando l’Esercito italiano.

La Repubblica Sociale Italiana
Solo la nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ricostituzione di un esercito lealista, cui aderirono in seicentomila, frenò i propositi di Hitler. che aveva intenzione di smantellare totalmente il nostro apparato industriale, trasferendolo in Germania, di deportare nei campi di lavoro e nelle fabbriche tedesche tutti gli uomini che si fossero rifiutati di arruolarsi nella Wehrmacht ed altro ancora. I giovani che decisero di entrare nell’Esercito Fascista Repubblicano furono spinti da motivazioni non sempre nobili, ma questi giovani preferirono continuare a combattere, in divisa e a volto scoperto, pur consapevoli che le sorti del conflitto erano segnate e che difficilmente ne sarebbero usciti indenni, unicamente per quel senso dell’onore che oggi si fatica a comprendere. Furono migliaia e migliaia in tutta Italia i soldati fascisti fucilati dopo la loro resa, o condannati a morte dopo processi sommari, come ampiamente documentato in diversi libri, così come le giovani e giovanissime ausiliarie, tutte volontarie, catturate, stuprate e uccise dai partigiani.

La modalità di lotta dei partigiani.
I fascisti combattevano in divisa e a volto scoperto, inquadrati nelle divisioni dell’Esercito della Repubblica Sociale Italiana o nelle varie milizie volontarie, mentre i partigiani, pur potendo vestire una divisa, essendo armati e finanziati dagli americani e pur potendo combattere nell’Esercito italiano di Badoglio secondo le regole di guerra, preferirono il passamontagna, i soprannomi e la tecnica del mordi e fuggi, autori di attentati, sabotaggi e omicidi alle spalle, con il fine di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi definita con molta generosità “Guerra di liberazione”.

Vittime di “serie A” e vittime di “serie B”
La Repubblica italiana riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo”, al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale, per ricordare una pagina recente della nostra Storia che merita di essere conosciuta, per troppo tempo colpevolmente taciuta e ostinatamente negata, imperniata sui soliti luoghi comuni alimentati dalla sinistra, che vede i cattivi nazifascisti da una parte e i buoni partigiani dall’altra ed infine giustificata dalla logica che “quei crimini sono pienamente giustificati dal fine”. Una logica che, se dovesse prevalere, significherebbe che qualunque crimine, anche il più efferato, sarebbe giustificato in nome della potenza di comunicazione e dalla forza di persuasione di chi detiene il potere. Un “Giorno del Ricordo” spesso celebrato senza l’enfasi riservato alle vittime della Shoah, nel “Giorno della Memoria”, nel silenzio assordante delle Istituzioni e dei media, soprattutto di sinistra, quasi a voler dire “ricordatelo da soli”. Ancora oggi, nonostante l’Italia continui a considerarsi un Paese democratico, dove peraltro esiste un Partito politico che addirittura ostenta il termine “democratico” nel suo nome, le vittime delle ingiustizie non sono tutte uguali, perché esistono vittime di “serie A”, come quelle dei nazifascisti e vittime di “serie B”, come quelle dei partigiani. In un Paese effettivamente democratico le vittime dovrebbero essere tutte uguali e senza colore politico, perché, nella tragica realtà della guerra, gli uomini tendono a perdere la loro dimensione umana, per accostarsi a quella bestiale, per cui, o consideriamo tutti i morti uguali e rispettiamo gli ideali che animarono le loro azioni, giuste o sbagliate che possano apparire, oppure la storia deve essere raccontata tutta e per intero, senza reticenze e convenienze politiche. Purtroppo questa storia, che sarebbe una storia “giusta”, non è ancora la storia del nostro Paese “democratico” e, solo a conferma di questa affermazione, cito un episodio avvenuto a Bassano del Grappa il 30 novembre scorso, nel totale silenzio delle Istituzioni “democratiche” e dei Media, perché se si nega una cittadinanza onoraria alla Senatrice Liliana Segre tutti gridano allo scandalo e resuscitano razzismo, antisemitismo e fascismo, mentre, se si nega una cittadinanza onoraria alla figlia di una vittima delle Foibe nessuno ne parla, perché “non si deve sapere”.

La “democrazia” del Partito Democratico
A Bassano del Grappa, la minoranza di sinistra in Consiglio Comunale è uscita dall’aula, per non votare il riconoscimento della cittadinanza onoraria a Egea Haffner, nata a Pola nel 1941, figlia di Kurt Haffner, prelevato dai titini il 1° maggio 1945 ed infoibato nella cavità carsica di Pisino d’Istria. Durante la turbolenta seduta del Consiglio Comunale, la maggioranza di centrodestra ha annunciato l’avvio dell’iter per il conferimento della cittadinanza onoraria alla senatrice Liliana Segre, ma anche per la Hafner. L’emendamento impegnava la Giunta a estendere anche alla Hafner l’invito rivolto alla Senatrice a vita a un incontro pubblico nella città. “Un’occasione per trasmettere alla Città, ma soprattutto alle giovani generazioni, la loro testimonianza di perseguitati, per una riflessione sui valori fondanti di una società civile, per un agire quotidiano responsabile e senza odio alcuno”. Ma alla sinistra questo non è piaciuto, perché, in questo modo, Shoah e Foibe vengono messe sullo stesso piano. Lo trovo semplicemente vergognoso e non degno di un Paese democratico. Un Paese veramente democratico è quello che riconosce il medesimo rispetto a tutte le vittime innocenti, un Paese che, oltre a costituire la “Commissione Segre”, costituisca una Commissione per far conoscere ai giovani ed all’Italia i tantissimi gravissimi crimini di cui si sono macchiati i partigiani a guerra terminata, solo così si combatte veramente l’odio, che dev’essere sempre osteggiato, senza giustificazione alcuna.

Orrendi crimini. Per il ricordo dei pochi che conoscono e per informazione dei tanti che non sanno
Di seguito, solo alcuni degli innumerevoli, orrendi crimini commessi dai partigiani comunisti, per placare la loro sete di vendetta e di sangue, frutto della loro indicibile crudeltà e lucida follia, paragonabile a quella dei peggiori nazisti. Non serve e non è neppure degno di un Paese che si definisce “democratico” giustificare le loro azioni, qualificandole come “regolamenti di conti, o ripicche verso chi, durante il regime fascista, ne aveva approfittato per prevalere sul prossimo”, così come non serve elencare i morti o stabilire chi ha commesso i delitti peggiori, macchiandosi le mani di sangue innocente, ma serve per contribuire a sollevare il velo di omertà che copre i crimini efferati dei partigiani vincitori e questo solo per amore di verità, poichè solo riconoscendo gli errori del passato possiamo evitare che si ripetano in futuro. A seguire, la breve sintesi dei soli episodi più brutali ed un elenco di circostanze, per dare la possibilità, ai tanti che non sanno, di approfondire e conoscere e per dare la possibilità ai pochi che conoscono di ricordare le migliaia di vittime innocenti, trucidate tra atroci sofferenze:

Carabinieri torturati e trucidati a Malga Bala
Tragico destino per dodici giovani Carabinieri, catturati dai partigiani comunisti alle Cave del Predil (Udine), nell’alto Friuli. Il 23 marzo 1944, i partigiani comunisti presero in ostaggio il Vicebrigadiere Dino Perpignano, di Sommacampagna (Verona), mentre stava rientrando negli alloggiamenti e lo costrinsero a rivelare la parola d’ordine. Una volta entrati nel presidio, catturarono tutti i Carabinieri, in parte addormentati. I dodici militari furono deportati nella valle Bausiza e, rinchiusi in un fienile, venne loro dato un pasto condito con soda caustica e sale nero. Dopo poco, si levarono urla e implorazioni raccapriccianti e la loro agonia si protrasse fra atroci dolori per ore e ore. Stremati e consumati dalla febbre: Primo Americi, Lindo Bertogli, Ridolfo Colzi, Michele Castellano, Domenico Dal Vecchio, Fernando Ferretti, Antonio Ferro, Attilio Franzan, Pasquale Ruggiero, Pietro Tognazzo e Adelmino Zilio, mai impiegati in altri servizi, tranne quello a guardia della Centrale Elettrica, alcuni appena ventenni, furono costretti a camminare sino a Malga Bala (oggi Slovenia), dove, il giorno 25 marzo, li attendeva una fine orribile. Il Vicebrigadiere Perpignano fu spogliato, gli venne conficcato un legno ad uncino nel nervo posteriore del calcagno e, issato a testa in giù, fu legato a una trave. Poi, tutti furono incaprettati. A quel punto, i macellai partigiani cominciarono a colpire i corpi dei Carabinieri con i picconi; a qualcuno vennero asportati i genitali e conficcati in bocca, ad altri venne aperto a picconate il cuore o vennero cavati gli occhi. All’Amenici venne conficcata nel cuore la fotografia dei figli, il Perpignano venne finito a pedate in faccia e in testa. La mattanza terminò con i corpi dei martiri legati con il filo di ferro e trascinati sotto un grosso masso. Ora le misere spoglie di questi ragazzi riposano, dimenticate dagli uomini, dalle Istituzioni e dalla storia, in una torre medievale di Tarvisio, le cui chiavi sono conservate da alcune suore di un vicino convento. Una lapide ambigua li ricorda, senza una parola di verità.

La strage di Graglia
Il 27 aprile 1945, dopo un disperato combattimento durato 14 ore, una trentina di persone appartenenti al R.A.U. (Raggruppamento Arditi Ufficiali) e al R.A.P., fra cui 24 ufficiali, cinque ausiliarie e due mogli di ufficiali che avevano raggiunto i mariti, si arresero ai partigiani. I prigionieri vennero concentrati, in parte al “Cavallino Bianco” e in parte altrove. Il mattino del 28 aprile, gli uomini del RAU furono condotti, prima a Dorzano, poi ad Aral Grande ed infine, il 1° maggio, a Graglia, ove furono rinchiusi in una stanza dell’albergo “Belvedere”. Furono giorni terribili di percosse e sevizie, quasi senza mangiare e ad una donna incinta, moglie di un ufficiale, fu negato anche un bicchiere d’acqua. Il giorno 2 maggio, in più riprese, vennero condotti fuori. Il primo gruppo fu condotto presso un ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro e furono tutti massacrati. Fra loro, il Maggiore Casini, il Capitano Gili, il S. Tenente Tosi. Il secondo gruppo venne massacrato in località Pairette, dove morirono il Capitano Toppi, il Capitano Visconti, di Modrone e il Tenente Conti. Il terzo gruppo fu ucciso alla cascina Quara, nei pressi del Santuario ed il quarto in località Portioli. Ultime a morire furono le donne, uccise dietro il cimitero e non ci fu pietà neppure per la donna incinta. Essa, gettata a terra con uno spintone, fu uccisa con una raffica di mitra insieme al bambino che portava in grembo.

L’eccidio di Urgnano (Bergamo)
Nei giorni dal 26 al 29 aprile 1945, vennero rinchiusi nella camera di sicurezza della caserma dei Carabinieri di Urgnano, presso Bergamo, 11 fascisti locali, in parte arrestati, in parte presentatisi spontaneamente ai membri del CLN locale, per chiarire la loro posizione di persone a carico delle quali non pendeva nessuna accusa specifica. Il presidente del locale CLN, pare su istruzioni della Questura di Bergamo, inviò presso la stessa Questura gli 11 fascisti, scortati da molti partigiani venuti anche da Bergamo. Nove fascisti furono trattenuti in Questura circa un quarto d’ora, dopo di che furono condotti presso il cimitero di Bergamo e, dopo essere stati depredati di tutto, furono massacrati a raffiche di mitra, dopo essere stati duramente picchiati. Gli altri due, Giovanni Discacciati e Dino Richelmi furono risparmiati, non si sa bene perché. Dopo la guerra, le famiglie chiesero giustizia, facendo anche i nomi di diverse persone ritenute a vario titolo responsabili, ma la magistratura non riuscì a stabilire responsabilità oggettive e giustizia non fu fatta.

La strage di Oderzo (Treviso)
Il 28 aprile del 1945, 26 giovani militi dei Battaglioni “Bologna” e “Romagna” della GNR e 472 uomini della Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo, della R.S.I. (450 Allievi più 22 Ufficiali) si arresero al C.L.N., con la promessa di avere salva la vita. L’accordo fu sottoscritto nello studio del Parroco Abate Mitrato, Domenico Visentin, alla presenza del nuovo Sindaco di Oderzo, Ing. Plinio Fabrizio, del Dr. Sergio Martin, Presidente del C.L.N., del Colonnello Giovanni Baccarani, Comandante della Scuola di Oderzo e del Maggiore Amerigo Ansaloni, Comandante del Battaglione Romagna. Ma quando scesero i partigiani della Brigata Garibaldi “Cacciatori della pianura”, comandati dal partigiano Bozambo, considerarono l’accordo come carta straccia e, il 30 aprile, cominciarono i massacri. Quel giorno furono uccisi 13 uomini sulle rive del Monticano. La maggior parte, ben 100, furono uccisi al Ponte della Priula, frazione di Susegana e gettati nel Piave il 12 maggio. La mattina del 17 maggio, scelsero tredici Allievi Ufficiali della Scuola di Oderzo e li assassinarono nei pressi del Ponte della Priula.

La corriera della morte
Nella notte fra il 14 e il 15 maggio, tre camion della Pontificia Opera di Assistenza, che venivano dal bresciano e trasportavano, verso sud, reduci della R.S.I. che cercavano di rientrare a casa, furono fermati a Bondanello dalla polizia partigiana, che aveva sede nella casa del popolo di Moglia. Il primo camion, proveniente da Brescia, trasportava 43 persone, consegnate alla polizia partigiana di Concordia, che ne rinchiuse 25 a Villa Medici, ribattezzata “Villa del pianto”. Questi furono depredati di tutto e massacrati il 17 maggio. Gli altri, due notti dopo, vennero caricati su un camion e fatti proseguire per Carpi. Ma, giunti a San Possidonio, furono scaricati, condotti a gruppi nella campagna circostante, depredati, seviziati e uccisi nella notte del 19 maggio. Fra tanto orrore, un fatto ancora più orrendo: fra quei poveretti c’era anche una giovane donna con marito e figlio. Questi ultimi finirono massacrati con gli altri. La donna, al sesto mese di gravidanza, fu violentata da nove uomini e poi abbandonata in stato confusionale davanti ad un albergo di Modena. Dalle risultanze processuali, pare che gli uccisi fossero, in totale, più di ottanta. Diversi responsabili furono identificati ma, come al solito, pur essendo stati ritenuti colpevoli, beneficiarono dell’amnistia e del minaccioso sostegno del partito comunista, rimanendo impuniti.

La strage di Rovetta (BG)
Il 26 aprile 1945, un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento, di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiunsero alcuni militi della 5^ Compagnia, sentite le notizie della disfatta tedesca, decise, malgrado la contrarietà di alcuni, di arrendersi e si diresse verso Clusone, sollecitato in tal senso anche da tale Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava i militi. Giunti a Rovetta (BG), trattarono la resa col locale C.L.N., che promise un trattamento conforme alle convenzioni internazionali. Erano 46 militi, comandati dal giovane S. Tenente Panzanelli, di 22 anni. Deposte le armi, furono alloggiati nelle locali delle scuole elementari. Il Prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Ma una masnada di feroci partigiani, giunti da Lovere su due camion, impose la consegna dei prigionieri e il 28 aprile, dopo feroci maltrattamenti, 43 di loro (uno, Fernando Caciolo, della 5^ Compagnia, sedicenne di Anagni, riuscì a fuggire e tre giovanissimi, Chiarotti Cesare, di Milano, Ausili Enzo, di Roma e Bricco Sergio, di Como, vennero risparmiati) vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e fucilati. L’ultimo ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu il Vicebrigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini, sorella del Duce. Dopo la guerra, alcuni di quei partigiani, ritenuti responsabili della strage, furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo a procedere, in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che, in un unico articolo, dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo, perché da considerarsi “azioni di guerra”. Dalla viltà dei Giudici, fu considerata azione di guerra legittima anche il massacro di prigionieri inermi, compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata. Purtroppo, periodicamente, i “soliti ignoti” vandalizzano, nel cimitero di Rovetta, le lapidi commemorative dei 43 legionari uccisi e di Padre Antonio, il loro Cappellano.

La strage di Lovere (Bergamo)
Mercoledì 25 aprile 1945, un piccolo presidio della Legione “Tagliamento”, 26 militi della 4^ Compagnia del II Reggimento, di stanza nell’edificio delle scuole elementari a Piancamuno, in Val Canonica, venne sorpreso da un gruppo di partigiani, fra i quali vi erano dei polacchi in divisa tedesca. Malgrado la sorpresa, i militi reagirono, subendo 9 morti, fra cui il Comandante aiutante, Maresciallo Ernesto Tartarini e tre feriti. Anche il comandante partigiano, però, tale Luigi Macario, venne ucciso, insieme ad altri due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedettero al fuoco intenso dei militi superstiti e si ritirano. A questo punto giunse in aiuto una squadra del plotone Guastatori, al comando del Brigadiere Amerigo De Lupis, il quale si rese conto che i tre feriti, ricoverati all’Ospedale di Darfo, non avevano una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti, Sandro Fumagalli, morì la mattina del 26. Allora, nel pomeriggio, De Lupis, con una piccola scorta, portò i due feriti ancora vivi all’Ospedale di Lovere, sul lago d’Iseo, senza sapere che i partigiani stavano occupando la città. Al mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale della G.N.R., comandato dal Ten. Agostino Ginocchio, si arrese a un gruppo di partigiani, mentre altri partigiani stavano affluendo dalle montagne. Così De Lupis e i suoi uomini vennero sorpresi all’uscita dall’Ospedale e catturati. Condotti presso la casa canonica (Palazzo Bazzini), che veniva utilizzata come prigione, vennero rinchiusi insieme agli uomini del Ten. Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di 20 anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura Cordasco, così fu condotto in chiesa con De Lupis e il commilitone Vito Giamporcaro come testimoni. Ma, poichè la cerimonia si prolungava, i partigiani condussero via tutti gli uomini di De Lupis e li portarono dietro il cimitero, dove furono massacrati con raffiche di mitra, mentre i due legionari ricoverati, come si è detto, in ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni giorno percossi e maltrattati e, prelevati da partigiani, fra il 7 e l’ 8 di Giugno, oltre 40 giorni dopo la fine della guerra, furono percossi, seviziati e, infine, gettati nel lago e annegati.

La strage di S.Eufemia e Botticino Sera (BS)
Fra il 9 e il 13 maggio 1945, 11 fascisti furono prelevati a Lumezzane, altri a Toscolano Maderno e orribilmente seviziati. 23 vennero uccisi proprio di fronte alla Chiesa di S.Eufemia, mentre altri 16 vennero uccisi e gettati in una fossa a Botticino, in una località detta Mulì de l’Ora. I civili erano 16 e i militari 23, di cui 9 erano della Divisione San Marco. I cadaveri furono ritrovati, in stato di avanzata decomposizione, con tracce di inaudita violenza e con le unghie strappate. Autori dell’eccidio furono i partigiani comandati da tale Tito Tobegia.

I feroci massacri del Biellese
A Bocchetta Sessera (Vercelli), una stele ricorda le decine di cadaveri di fascisti, anche donne, stuprate e seviziate prima di essere uccise, che si presume si trovino ancora nel bosco sottostante. Fu questa una delle zone dove la ferocia partigiana toccò livelli inimmaginabili. Qui operava Francesco Moranino, detto Gemisto che, ricordiamolo, nel 1955 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Firenze, per strage di partigiani non comunisti e che fuggì a Praga, da dove rientrò in Italia, dopo che il P.C.I. lo ebbe fatto eleggere Senatore.

Il massacro di Schio (VI)
La notte fra il 6 e il 7 luglio 1945, una pattuglia partigiana irruppe nel carcere di Schio, dove erano detenute 91 persone, fascisti o presunti tali, tra i quali: 5 della Brigata Nera, 3 della Polizia Ausiliaria, 3 Ausiliarie, 34 fascisti e gli altri, arrestati come tali, su semplice indicazione di un partigiano. C’erano ragazze diciassettenni, donne in gravidanza e vecchi. Fra loro c’erano: Il Primario dell’Ospedale di Schio Dr. Michele Arlotta, il Commissario Prefettizio Dr. Giulio Vescovi, i fascisti RSI Mario Plebani, Tadiello Rino, Domenico e Isidoro Marchioro, il Dr. Diego Capozzo, Vice Commissario Prefettizio, Anna Franco di 16 anni, Calcedonio Pillitteri, reduce dalla Russia, il vecchio Dr. Antonio Sella, già Podestà di Valoli del Pasubio, Giuseppe Stefani già Podestà di Valdastico. Di queste 91 persone, che erano state radunate in uno o due stanzoni e contro cui furono sparate molte raffiche di mitra, ne furono massacrate ben 54, di cui 19 donne, mentre 14 rimasero ferite (11 in modo grave). Il Tribunale Militare alleato individuò alcuni degli esecutori materiali del crimine ed emise alcune condanne, però mai eseguite. Dai dibattimenti emerse che molte di quelle persone non avevano alcuna colpa e nei loro confronti era già pronto l’ordine di scarcerazione. Il Governatore Militare alleato ebbe ad affermare che i fatti di Schio costituivano una macchia per l’Italia ed ebbero una larga pubblicità nei giornali statunitensi, britannici e sudafricani, dove vennero considerati senza attenuanti.

L’eccidio dell’Ospedale psichiatrico di Vercelli
Nei giorni dal 23 al 26 aprile 1945, si erano concentrate a Vercelli tutte le forze della R.S.I. della zona, circa 2000 uomini, che andarono a costituire la Colonna Morsero, dal nome del Capo Provincia di Vercelli, Michele Morsero. Tale colonna partì da Vercelli alle ore 15 del 26 aprile, dirigendosi verso nord, per raggiungere la Valtellina. I reparti che costituivano la colonna erano: il 604° Comando Provinciale GNR Vercelli, comandato dal Colonnello Giovanni Fracassi, la VII B.N. “Punzecchi” di Vercelli, parte della XXXVI B.N. “Mussolini” di Lucca, il CXV Battaglione “Montebello”, il I Battaglione Granatieri “Ruggine”, I Battaglione d’assalto “Ruggine”, il I Battaglione Rocciatori (poi controcarro) “Ruggine”, il III Battaglione d’assalto “Pontida”. La colonna raggiunse Castellazzo, a Nord di Novara, la mattina del 27 aprile e, dopo trattative e molte incertezze, la sera, decise di arrendersi ai partigiani di Novara, dietro la promessa di essere trattati da prigionieri di guerra. Il 28 aprile, i prigionieri vennero condotti a Novara e rinchiusi, in massima parte, nello stadio. Subito cominciarono gli insulti e i maltrattamenti e il 30 aprile cominciarono i prelevamenti di gruppi di fascisti, dei quali non si ebbe più notizia. Lo stesso accadde nei giorni successivi, insieme a feroci pestaggi. Il 2 maggio, Morsero venne portato a Vercelli e fucilato. Intanto giunsero gli americani, che tentarono di ristabilire un minimo di legalità. Ma, il Corriere di Novara dell’8 maggio parlò di molti cadaveri di fascisti ripescati nel canale Quintino Sella. Finché, il 12 maggio giunsero, da Vercelli, i partigiani della 182^ Brigata Garibaldi di “Gemisto”, cioè Francesco Moranino, che prelevarono 140 fascisti, elencati in una loro lista, che furono portati all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli, dove furono, in buona parte, massacrati. Le pareti dei locali dove avvenne l’eccidio, erano lorde di sangue fino ad altezza d’uomo. Altri vennero schiacciati da un autocarro in un cortile, altri ancora fucilati nell’orto, accanto alla lavanderia, altri, pare tredici, fucilati a Larizzate ed altri, infine, portati con due autocarri e una corriera al ponte di Greggio, sul canale Cavour, uccisi e gettati nel canale. Nei giorni successivi, i cadaveri ritrovati nei canali di irrigazione, alimentati dal canale Cavour, furono più di sessanta. Solo il giorno 13 maggio, gli americani presero il controllo dei prigionieri, evitando altri massacri, mentre era già pronta la lista di altri prigionieri da prelevare, quello stesso giorno alle ore 18.00.

Gli N.P. trucidati a Valdobbiadene (Treviso)
Dopo che il 9 marzo 1945 il grosso del Battaglione N.P. della X fu trasferito sul fronte del Senio, rimasero a presidio soltanto 45 marò, che avevano sempre vissuto in buona armonia con la popolazione e, quindi, pensavano di non avere nulla da temere. Dopo il 25 aprile, a guerra finita, si consegnarono ai partigiani della Brigata “Mazzini”, comandata da Mostacetti. Ma, nella notte fra il 4 e il 5 maggio, essi furono divisi in tre gruppi, per essere, si disse loro, trasferiti altrove. Il primo gruppo fu condotto in località Saccol di Valdobbiadene, spinto in una galleria e trucidato a colpi di mitra e di bombe a mano. La galleria, poi, fu fatta saltare per occultare il crimine. Il secondo gruppo fu condotto in località Medean di Comboi e ai marò vennero legate le mani dietro la schiena con filo di ferro, quindi, dopo essere stati depredati, vennero uccisi e bruciati. Stessa sorte ebbe il terzo gruppo, condotto in località Bosco di Segusino.

La strage di Codevigo (Padova)
Fra il 3 e il 13 Maggio 1945, furono seviziate e uccise oltre 365 persone, fra cui 17 fascisti (uomini e donne) di Codevigo. I militari, appartenenti a formazioni R.S.I. della provincia di Ravenna, erano stati catturati negli ultimi giorni di aprile ed incarcerati. Ma i partigiani romagnoli di Arrigo Boldrini li prelevarono, dicendo che li avrebbero condotti a Ravenna. Li portarono, invece, a Codevigo e, dopo averli seviziati, li condussero al ponte sul fiume Brenta e li uccisero a due per volta, gettandoli poi nel fiume. Molte salme furono trascinate via dalla corrente ed altre, gettate nei cimiteri dei dintorni, furono recuperate per l’opera instancabile di tale Rosa Melai che, il 27 maggio 1962, riuscì a inaugurare l’Ossario, dove radunò le salme ritrovate. Oggi, sono 114 i caduti che qui hanno trovato riposo e rispetto.

L’eccidio del 2° R.A.U.
Gli uomini del 2° R.A.U. (Reparti Arditi Ufficiali), appartenente al R.A.P (Raggruppamento Anti Partigiano), che operava in Piemonte, si arresero ai partigiani il 27 aprile a Cigliano, a nord di Torino, essendo stato promesso il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra e l’onore delle armi. Ma, il 29 aprile vennero divisi in due gruppi: nel primo vennero inclusi quasi tutti gli ufficiali, le ausiliarie e due signore mogli di ufficiali, nel secondo gli altri. Il primo gruppo venne condotto a Graglia, fra inauditi maltrattamenti, senza cibo ne acqua per tre giorni e fu negata l’acqua anche alla signora Della Nave, incinta. Il 2 di Maggio 1945, furono divisi in tre gruppi: il primo fu condotto al ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro, il secondo in località Paiette e il terzo alla Cascina Quara, presso il Santuario e furono tutti trucidati. Oggi tutte le salme riposano in una tomba-ossario nel cimitero di Graglia, dove una lapide bronzea, recante il gladio della R.S.I., ne ricorda il sacrificio.

L’eccidio dei fratelli Govoni
Alle ore 23 dell’11 Maggio 1945, ad Argelato (Bologna), frazione Casadio, podere Grazia, assieme al altri dieci fascisti prelevati a San Giorgio in Piano, partigiani emiliani trucidavano, dopo averli condotti presso una fossa anticarro, i sette fratelli Govoni, che erano stati prelevati a Pieve di Cento, la mattina alle 6,30: Dino, 40 anni, falegname, Marino, 34 anni, contadino, Emo, 31 anni, falegname, Giuseppe, 29 anni, contadino, Augusto, 27 anni, contadino, Primo, 22 anni, contadino e Ida, di appena venti anni, sposata ad Argelato e madre di un bambino. Prima della morte, tutti furono picchiati a sangue e seviziati in vario modo. Solo Dino e Marino avevano militato nella R.S.I. Nel 1951, quando fu scoperta la fossa dove giacevano i corpi dei 7 fratelli, insieme a quelli degli altri dieci fascisti, si scoprì lì vicino un’altra fossa, con i resti di 25 cadaveri.

I massacri dei Bersaglieri del “Mussolini”
Il Battaglione di Bersaglieri volontari “Mussolini” fronteggiò gli slavi del X Corpus sul fronte orientale, fin dal 10/12 ottobre 1943. Il 30 aprile 1945, dopo la morte di Mussolini e la resa delle truppe italo-tedesche, anche gli uomini del “Mussolini” decisero di arrendersi ai partigiani di Tito, alle condizioni stabilite, che prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e la trattenuta dei soli ufficiali, per accertare eventuali responsabilità. Ma i “titini” si guardarono bene dal rispettare le condizioni concordate e, invece di lasciare liberi i soldati, condussero tutti a Tolmino e li rinchiusero in una caserma. Da qui qualcuno fortunatamente riuscì a fuggire, ma, dopo alcuni giorni, 12 ufficiali e novanta volontari furono prelevati, condotti sul greto dell’Isonzo e trucidati. Dopo alcuni giorni, altri dodici soldati furono prelevati, condotti a Fiume e uccisi. E ancora, il 18 maggio, furono prelevati 50 degenti dall’Ospedale Militare di Gorizia e uccisi, di cui dieci erano Bersaglieri. Intanto i sopravvissuti avevano iniziato una marcia allucinante, senza cibo né acqua, picchiati e seviziati e altri furono uccisi durante la marcia. Finalmente giunsero al tristemente famoso campo di prigionia di Borovnica, ove fame, epidemie, sevizie e torture inumane seminarono morte fra gli odiatissimi Bersaglieri. Alla chiusura di quel campo, nel 1946, i sopravvissuti furono internati in altri campi, ove le condizioni non migliorarono assolutamente. Alla fine, il 26 giugno 1947, soltanto 150 Bersaglieri, ridotti in condizioni inumane, ebbero la fortuna di tornare in Italia. Dei quasi quattrocento caduti del Battaglione, ben 220 furono quelli uccisi dopo il 30 aprile 1945.

La strage delle Ausiliarie
Negli ultimi giorni dell’aprile e nei primi di maggio del 1945, l’odio bestiale dei partigiani si scatenò, con particolare accanimento, contro le donne che avevano prestato servizio, in qualità di Ausiliarie, nell’esercito della R.S.I. Esse subirono torture, pestaggi, ripetuti stupri e si tentò di umiliarle in ogni modo, spesso denudandole ed esponendole al ludibrio di folle imbestialite. Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.”, ricorda diecine di casi di Ausiliarie, spesso giovanissime, catturate da sole o in piccoli gruppi e, poi, martirizzate e trucidate. L’elenco delle Ausiliarie cadute che compare in detta opera, è di 200 nominativi, ma non è completo, proprio perché non è mai stato possibile fare luce completa sulla quantità di crimini commessi dai partigiani, in quella primavera di sangue, a danno di queste giovani donne coraggiose e fedeli fino alla fine. Nella sola Torino ne furono massacrate 18.

I trucidati della 29° Divisione SS italiane
Il Battaglione “Debica” ed il Gruppo di combattimento “Binz”, di questa Divisione, ritenuti i reparti più idonei al combattimento, si arresero agli americani nei giorni 29 e 30 aprile 1945. Il Battaglione Pionieri ed i Battaglioni dislocati a Mariano Comense e a Cantù, invece, dopo una strenua resistenza condotta fino all’esaurimento delle munizioni, furono catturati dai partigiani. Gli ufficiali furono tutti trucidati. Il Tenente Luigi Ippoliti, ferito, fu prelevato in ospedale il 5 maggio 1945, condotto presso il cimitero di Meda e qui massacrato legato alla barella.

I morti della Divisione “San Marco”
Negli ultimi giorni di aprile 1945, a guerra conclusa, molti uomini della Divisione “San Marco” furono uccisi dai partigiani. Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.”, ne elenca alcune centinaia, fra cui, circa 300 ignoti ancora in divisa, ma privi di ogni segno di riconoscimento, trucidati a Colle di Cadibona, Monte Manfrei, Passo del Cavallo, Santa Eufemia e in altri luoghi. Il Deposito Divisionale, ritiratosi a Lumezzane V.T., il 27 aprile, accettò la resa con l’onore delle armi e un promesso salvacondotto per tutti. Ma, una volta deposte le armi, i partigiani condussero gli ufficiali a Gardone e, dopo due giorni, li trucidarono a S.Eufemia della Fonte (BS). Fra di essi il Comandante del Deposito Tenente Colonnello Zingarelli, la cui salma, ritrovata con le altre orrendamente mutilate, potè essere identificata in virtù di un maglione blu che era solito indossare.

I trucidati della Divisione “Littorio”
Negli ultimi giorni di aprile 1945, anche i reparti della “Littorio”, che difendevano i confini occidentali, iniziarono il ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si consegnarono a questi e furono avviati ai campi di concentramento. Quelli che, invece, si consegnarono ai partigiani, come il III Battaglione del 3° Reggimento Granatieri, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto un accordo coi partigiani del Capitano Aldo Quaranta, per un indisturbato deflusso di tuti i reparti ed il III Battaglione, che, giunto il 27 aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese al capo del CLN del luogo, tale Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero stati messi gradualmente in libertà, forniti di lasciapassare. Fra gli uomini del Battaglione ed i partigiani non c’erano mai stati scontri o altri incidenti, per cui il patto fu accettato dagli uomini della “Littorio”, fidando nella parola dell’Oratino. Ma, gli uomini del CLN e i partigiani non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi, Comandante del III Battaglione, il Maggiore Montecchi, il Tenente Buccianti, il Capitano Calabrò, i Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta ed altri furono uccisi, alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo e, soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.

I caduti del 3° Rgt Bersaglieri volontari
Il I Battaglione era schierato a Genova e a levante di Genova. I reparti che erano a levante di Genova si sacrificarono quasi interamente, per contrastare l’avanzata della 92^ Divisione “Buffalo”. I reparti che si trovavano in città furono attaccati dai partigiani e si difesero fino all’ultima cartuccia. Essendo ormai disarmati, furono catturati e quasi tutti uccisi immediatamente. Il II Battaglione si trovava, invece, in Liguria, in difesa del confine occidentale. Quando giunse l’ordine di ripiegamento, risalì, insieme alla 34^ Divisione Tedesca, fino a Quagliuzzo in Piemonte e qui, il 3 maggio, si arrese al CNL locale, previo rilascio di un lasciapassare per tutti gli uomini. Malgrado il lasciapassare, però, il Capitano Francoletti e il Tenente. Casolini furono condotti sul greto della Dora e massacrati. I corpi non furono mai ritrovati. Questo Battaglione aveva anche due giovani mascotte, di quattordici e 12 anni, anche loro assassinate dai partigiani.

Le stragi di Sondrio
Il 25 aprile 1945, a Sondrio, il Generale Onorio Onori era il Comandante dei circa 3000 uomini della R.S.I. ed avrebbe dovuto organizzare il famoso ridotto della Valtellina. Altri 1000 uomini, al comando del Maggiore Renato Vanna, erano a Tirano e cercavano di raggiungere Sondrio. Il Maggiore Vanna, con 300 uomini, tentò di forzare gli sbarramenti opposti dai partigiani, ma il Generale Onori e Rodolfo Parmeggiani, Federale di Sondrio, gli andarono incontro a Ponte in Valtellina, a 9 Km da Sondrio, comunicandogli di essersi arresi il giorno prima e invitandolo a fare altrettanto. Era il 29 aprile, tutti i prigionieri vennero chiusi nel carcere di via Caimi o nell’ex casa del Fascio e, malgrado le solite promesse di trattamento civile e conforme alle convenzioni internazionali, ai primi di maggio, ebbero inizio le uccisioni di massa. Il 4 maggio furono prelevati 8 uomini, condotti ad Ardenno, obbligati a scavarsi la fossa e uccisi. Il 6 maggio ne furono prelevati 13, condotti a Buglio in Monte e uccisi. Il 7 maggio fu la volta di altri 15, i quali, condotti vicino a Bagni del Masino, furono mitragliati alle gambe e, poi, bruciati vivi. Si calcola che, in totale, gli uccisi siano stati oltre 200, secondo alcuni, addirittura 500. Fra le vittime, anche l’ausiliaria Angela Maria Tam, il Maggiore Vanna e due Capitani medici. Il S. Tenente Paganella fu gettato da un campanile. Molte furono anche le vittime del I Battaglione Milizia Francese, dipendente dallo stesso Comando.

Il tributo di sangue delle Brigate Nere
La XI Brigata Nera “Cesare Rodini” di Como, si arrese il 28 aprile 1945 e gli squadristi furono avviati a Coltano. Ma, al presidio di Cremia, alla Compagnia “Menaggio”, toccò una sorte tragica. Il 25 aprile, un giovanissimo squadrista, Gianni Tomaini, classe 1930, portò a questo presidio l’ordine di rientrare a Menaggio. Ma, il Comandante del presidio stava già trattando la resa coi partigiani, che promettevano salva la vita. Appena consegnate le armi, tutti gli squadristi furono portati a Dongo, sottoposti ad inaudite sevizie e trucidati, compreso il giovane Tomaini.

Eccidio del carcere giudiziario di Ferrara
L’8 giugno 1945, una squadra di partigiani, che esibivano sul taschino del giubbotto un grosso distintivo con la falce e martello, si fecero aprire, con uno stratagemma, la porta del carcere “Piangipane”, di Ferrara. Tre di essi, armati di mitra, dopo aver fatto evadere i partigiani detenuti per reati comuni, penetrarono nell’ala dove erano rinchiusi i detenuti politici, e, fattesi aprire le celle dal capo guardia, ingiunsero ai reclusi di ammassarsi in fondo al corridoio e li massacrarono a ripetute raffiche di mitra, sparate ad altezza d’uomo. Non soddisfatti, continuarono a sparare nel mucchio dei corpi ammucchiati per terra in una pozza di sangue, prima di fuggire nel cortile, dove uccisero anche il capo guardia. In totale i morti furono 18 e 17 i feriti. In successive e tardive indagini, furono identificati i tre sicari, ma, la Corte di Appello di Ancona, che li giudicò, ritenne estinti i reati per amnistia, quasi che l’eccidio fosse stato “commesso nella lotta contro il fascismo”.

La strage della cartiera Burgo di Mignagola (TV)
I partigiani, dopo la resa dei combattenti della RSI, organizzarono veri e propri campi di sterminio, dove, in brevissimo tempo, procedettero a barbare uccisioni, che eufemisticamente chiamavano “epurazioni”, dopo aver inflitto atroci sevizie. Come, ad esempio, la cartiera “Burgo” di Mignagola, frazione di Carbonera (TV), nei pressi di Breda di Piave. In questa cartiera furono sterminate 400, o, forse, anche 1000 persone. Si ha notizia di atroci sevizie inflitte ai prigionieri, prima dell’uccisione: lamette ficcate in gola, distintivi fatti ingoiare, spilloni piantati nei genitali, camminate a piedi nudi su cocci di bottiglia, bocca riempita di carta che poi veniva incendiata. Tra i trucidati, il giovane ufficiale Gino Lorenzi, crocifisso; era un sottotenente della GNR, appena uscito dalla scuola A.U. Lo inchiodarono con grossi chiodi ai polsi e alle caviglie su di una rozza croce, costituita da due tronchi d’albero e fu lasciato morire lentamente, fra tormenti atroci, finché le volpi lo finirono. Ma non fu l’unica crocifissione, si ha notizia anche della barbara e feroce tortura inflitta ad un altro giovane S. Tenente della GNR, appena uscito dalla scuola A.U.: Walter Tavani, crocifisso a un portone a Cavazze (MO). E ancora altri Martiri crocifissi ai portoni delle stalle, scelti tra gli oltre settanta assassinati nell’Argentano, dopo sevizie atroci, come: mani mozzate, occhi strappati, lingua inchiodata, unghie strappate e genitali amputati.

Il rogo di Francavilla Fontana (Brindisi)
L’8 maggio 1945, una piccola folla di facinorosi, sobillati da comunisti, prelevò i fratelli Chionna dalla loro abitazione, che venne depredata di ogni bene asportabile e quindi devastata, soltanto perché colpevoli di aver conservato sentimenti fascisti. I due vennero sospinti con feroci sevizie fino alla piazza principale della cittadina, dove era stata allestita una pira a cui fu dato fuoco. Il linciaggio si concluse con il rogo dei due fascisti, gettati tra le fiamme ancora vivi.

Nefandezze nel modenese
Il 29 aprile 1945, a Medolla (MO), il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto su una carrozzella, venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto. Il 27 aprile 1945, a Modena, Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli, quindi, trascinate vicino al cimitero, dove furono sepolte vive.

Assassinio della levatrice di Trausella (TO)
A Trausella (TO), la levatrice di quel Comune fu prelevata mentre si recava ad assistere una partoriente e trascinata presso il comando di una formazione partigiana, dove fu violentata da un numero imprecisato di eroici “combattenti per la libertà”, che poi la trucidarono, assassinandola tra tormenti atroci, avendole tamponato i genitali con ovatta impregnata di benzina, a cui appiccarono il fuoco, rinnovando l’orrenda combustione con altri tamponi infiammati fino alla morte.

Le stragi di Omegna
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio 1945, una squadra di partigiani penetrò con l’inganno nella casa del Sig. Raffaele Triboli e lo prelevò, insieme alla moglie, Clorinda Benassai e alla figlia di 21 anni, Gianna. La casa fu rapinata di tutto quanto poteva valere qualcosa. Restarono soli in casa, nel terrore, i figli: Francesca, di 14 anni, Antonietta di 13 e Raffaele di 9. I tre prelevati furono torturati, le donne violentate e, infine, gettati, pare ancora vivi, nel lago d’Orta, chiusi dentro un telo di paracadute. Ma questo non fu l’unico massacro compiuto dai partigiani nella zona del lago d’Orta.

La strage dei ragazzini di Mario Onesti
Il 25 aprile 1945, un reparto di giovanissimi militi della Contraerea della Malpensa, guidato dal Sergente Mario Onesti, si dirigeva verso Oleggio. Intercettati dai partigiani della brigata di Moscatelli, si difesero fino a quando, il Cappellano partigiano, Don Enrico Nobile, li invitò ad arrendersi, con la promessa che avrebbero avuta salva la vita e un salvacondotto per tornarsene a casa. Il Sergente interpellò i suoi giovanissimi militi, poco più che adolescenti e decise di accettare. Qualcuno non si fidò e riuscì a fuggire, ma undici militi, col loro Sergente, si consegnarono e, alle 18,30, si scrisse un verbale dell’accordo. Ma, i partigiani non avevano nessuna intenzione di rispettare il patto e, il giorno dopo, 26 aprile, i ragazzi vennero trattenuti come prigionieri nelle segrete del castello di Samarate, dove vennero sottoposti a indicibili torture. Il 27 aprile, alle 8 di mattina, vennero caricati su un camion e portati sul luogo del supplizio. Il Prete che avrebbe dovuto essere garante dell’accordo fu impotente e potè solo impartire una frettolosa benedizione, poi la fucilazione. Tutti offrirono il petto ai carnefici, al grido di “Viva l’Italia”. Non sazi, gli aguzzini infierirono sui corpi degli uccisi, anche ficcando ombrelli negli occhi dei morti.

La strage della famiglia di Carlo Pallotti
Il 9 gennaio 1945, alcuni partigiani penetrarono in una casa colonica nella campagna modenese, dove si era rifugiato il Veterinario Carlo Pallotti, fascista, insieme alla famiglia, massacrandoli tutti. Furono ritenuti responsabili i partigiani modenesi Michele Reggianini e Giuseppe Costanzini, che non subirono alcuna condanna per questo crimine, in quanto il massacro fu ritenuto, dalla Magistratura della nuova Italia democratica, una legittima azione di guerra.

Altri orrori:
La strage nel carcere di Cesena La strage di Acqui Terme La strage del carcere di Imperia;
Le stragi al Ponte della Bastia;
I massacri in provincia di Reggio Emilia Gli uccisi di Pescarenico (Lecco);
La strage di Comacchio La strage di Casteggio (PV) La strage di Stradella (PV) e dintorni;
La strage di Zogno Val Brembana La strage di Gazzaniga in Val Seriana La strage di Sordevolo;
La strage di Collegno;
La strage della corriera di Cadibona La strage del carcere di Finalborgo (SV);
La strage del carcere di Thiene;
La strage del carcere di Busto Arsizio I morti di Argenta;
Gli eccidi in Liguria;
L’eccidio di Stremiz (UD) La strage di Monte Manfrei (Savona);
Il massacro di Avigliana (Torino) I morti di Agrate Conturbia (NO) L’olocausto della “Monterosa”;
Gli uccisi del XIV Battaglione Costiero da Fortezza I massacrati di Ponte Crenna (Pavia) I caduti dei Guastatori del Genio II Battaglione;
Gli uccisi del Battaglione Volontari Mutilati “Onore e Sacrificio” L’eccidio di Ozegna Il massacro del Distaccamento “Torino” della X;
I trucidati della base operativa “Est” della X;
Il sacrificio della Scuola Sommozzatori della X I morti del Battaglione “Sagittario” della X;
L’assassinio del Maggiore Adriano Visconti I massacrati del Battaglione “Folgore” Le stragi di Genova;
Le stragi di Imperia Le stragi di Milano Le stragi di Varese;
Le stragi di Como Le stragi di Brescia Le stragi di Pavia;
Le stragi di Vicenza Le stragi di Treviso Le stragi di Padova;
Le stragi di Bologna Le stragi di Parma Le stragi di Modena;
Le stragi di Forlì Le stragi del 3° Reggimento M.D.T. “D’Annunzio” Gli uccisi del Battaglione “Montebello”;
Il sacrificio del Battaglione “9 settembre”;
L’eccidio di Volto di Rosolina (Rovigo);
Le condanne a morte richieste dal P.M. Oscar Luigi Scalfaro

anonimo - 05/07/2024 09:16

Il fascismo mi fa schifo quanto voi, che siete vomitevoli. L'accenno al padre e alla famiglia è vergognoso. Sarebbe come dire che se ammazzano uno perché suo padre è comunista o di qualsiasi altra fede politica va bene. L'appartenenza ai GUF vede la Cossetto, come già scritto in altra occasione, in ottima compagnia. Ecco un elenco di iscritti ai Gruppi Universitari Fascisti:

Norberto Bobbio
Giorgio Napolitano
Aldo Moro
Amintore Fanfani
Paolo Emilio Taviani
Carlo Donat Cattin
Luigi Preti
Giuliano Vassalli
Pietro Ingrao
Alessandro Natta
Antonello Trombadori
Renato Guttuso
Paolo Sylos Labini
Franco Modigliani
Giorgio Strehler
Michelangelo Antonioni
Luigi Comencini
Alberto Lattuada
Cesare Zavattini
Alberto Mondadori
Edilio Rusconi
Giorgio Bassani
Carlo Bo
Italo Calvino
Alfonso Gatto
Pier Paolo Pasolini
Vasco Pratolini
Maurizio Barendson
Giorgio Bocca
Gianni Granzotto
Jader Jacobelli
Sandro Paternostro
Eugenio Scalfari

Se fu lecito uccidere (nel modo in cui fu uccisa) la Cossetto perchè GUFina, allora potevano allegramente eliminare parte cospicua della futura classe dirigente e culturale, compresi molti futuri comunisti già iscritti GUF. Francamente il loro post fascismo è pericoloso, ma il vostro antifascismo ideologico ed arrabbiato è oltre il muro del ridicolo.

anonimo - 05/07/2024 03:12

Una povera donna stocazzo. A differenza di migliaia e migliaia di donne che povere lo erano sul serio.

Anarchico - 05/07/2024 00:40

Aveva una vera e propria passione per la politica. Ricordo che partecipava con entusiasmo alle manifestazioni per la guerra d’Africa e non faceva mistero del suo nazionalismo spinto. Posso dire che sentiva molto decisamente la sua italianità. E diceva sempre che in Istria erano gli sloveni e i croati a essere fuori posto; perché gli italiani abitavano quella terra con più diritti”. Scrisse così Frediano Sessi, autore di “Foibe rosse”, descrivendo come Andreina Bresciani parlava di Norma Cossetto, sua Amica. Venerdì 5 ottobre, alle ore 18, nella sala Tiziano Tessitori in piazza Oberdan 5, il gruppo consiliare “Fratelli d’Italia”, presieduto da Claudio Giacomelli, con l’intervento di Paolo Sardos Albertini, di Emanuele Merlino e di Andrea Vezzà, ricorda Norma Cossetto, Medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria, conferita nel 2005 dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel settantacinquesimo anniversario della morte.


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Norma Cossetto, nel 1943, ha 23 anni; vive a Santa Domenica di Visinada, in Istria, a settanta chilometri da Trieste, e studia all’Università di Padova. Sta preparando la tesi. È fascista ed è iscritta ai Gruppi Universitari Fascisti. La sua vita è tranquilla; il vento che porta il cambiamento nelle sorti della Seconda Guerra Mondiale non è ancora arrivato in Istria, e la resistenza partigiana di Tito, più forte nel centro della Slovenia – è debole sul litorale istriano. Tutto cambia con la caduta del Fascismo e soprattutto dopo l’8 settembre 1943: i dirigenti di Mussolini sul territorio, le forze dell’ordine italiane e tutte le persone che hanno avuto qualche visibilità sono ora il bersaglio dei comitati locali. Il padre di Norma, esponente importante del fascismo istriano, si è allontanato, e per evitare rappresaglie si è spostato a Trieste, sottovalutando però i pericoli che corre la sua famiglia: il 26 settembre del 1943, Norma viene presa e interrogata una prima volta, per alcune ore, da esponenti delle forze di Tito, che cercano il padre e vogliono informazioni. La minacciano e le chiedono di rinnegare il fascismo. Il giorno dopo, la prendono di nuovo, la portano via, e non ritornerà più a casa: viene seviziata, violentata, uccisa e gettata il 5 ottobre in una foiba assieme ad altri. Il padre rientra con urgenza – forse ha saputo – ma cade in un’imboscata, viene anche lui ucciso e fatto scomparire, il 7 ottobre, nello stesso modo.













Norma Cossetto, impersonata dall’attrice Selene Gandini, è la protagonista della storia raccontata nel film “Red Land”, presentato a Venezia nel 2018 e diretto dal regista Maximiliano Hernando Bruno. “Red Land – Rosso Istria” e la conferenza stampa sono andate ai tempi in scena in sordina, rimanendo distanti dai riflettori e dalla mostra vera e propria. “Gli organizzatori hanno detto che c’erano già troppi film in concorso”, ha dichiarato Bruno, “eppure per un lavoro del genere avrebbero potuto fare un’eccezione e dargli il giusto riconoscimento”. L’interpellanza presentata alla Giunta del Friuli Venezia Giulia da Claudio Giacomelli e Alessandro Basso chiedeva che il film venisse proiettato nelle scuole della regione, al fine di far conoscere agli studenti, attraverso la storia di Norma, il dramma delle foibe e le vicende del confine orientale. “Norma Cossetto è un emblema della pulizia etnica e delle violenze operate dai partigiani titini nei confronti degli italiani d’Istria. Un valore civile per le future generazioni”, hanno detto i consiglieri. Alla domanda su un possibile boicottaggio ideologico, il regista Bruno ha preferito rispondere: “Aspettiamo che arrivi nelle sale e quale sarà l’accoglienza del pubblico, solo allora potremo dire se chi ha deciso di escluderlo ha fatto bene”.

Rosso è il colore della terra dell’Istria, e “Istria rossa” era il titolo della tesi di Norma, riferito ai minerali; nell’aprile del 1949, su proposta del professor Concetto Marchesi dell’università di Padova, Norma Cossetto ricevette la laurea honoris causa in Lettere, con la motivazione: “morta per la difesa della libertà”. “Gli italiani abitavano quella terra con più diritti”: Andreina Bresciani negò, successivamente, di aver detto le parole che Sessi aveva riportato, e forse può bastare già questo a far capire quanto difficile sia discutere apertamente – con lucidità e, seppur nell’emotività di chi ancora ricorda, con serenità storica – delle foibe e di ciò che accadde in Istria negli anni della Seconda Guerra Mondiale e successivamente.

Vi furono, in Istria, vendette ed esecuzioni sommarie. I corpi delle persone vittime di queste violenze, spesso scomparsi nel nulla, furono anche gettati nelle foibe: è un fatto. Le foibe sono innegabili, tanto quanto l’Olocausto, le fosse di Katyn, o i voli della morte in Argentina. Quanti furono gli infoibati? Furono migliaia, come sostenuto da chi, italiano, lasciò l’Istria, o centinaia, come sostenuto da chi rimase in Istria o vi arrivò?
La guerra dei numeri è amara e sterile in quanto una valutazione su dieci, cento, mille o diecimila scomparsi non rende meno orrendo ciò che accadde. Una parte delle foibe fu esplorata, e i ritrovamenti ci furono e vennero documentati al di là di ogni possibile smentita; una parte, in particolare quella risiedente in terreni privati e zone carsiche poco conosciute, non lo è stata ancora, e riserva di tanto in tanto nuove tragiche scoperte.

Relativamente alle sevizie cui sarebbero stati sottoposti i prigionieri prima di venire uccisi, come nel caso di Norma Cossetto, si trova scritto che risulta impossibile, per la scienza, valutare se un corpo ritrovato in avanzato stato di decomposizione abbia o meno subito violenze mentre era ancora in vita, “tantomeno sessuali”: è difficile per il cronista accettare queste affermazioni come verità. Non è infatti il solo atto tecnico dell’autopsia, di per sé stesso, a determinare l’evento di violenza sessuale, ma l’investigazione che viene fatta sull’intero corpo e l’insieme delle prove: ferite, stato degli abiti, segni o oggetti che possano far pensare a una costrizione. Nel caso di Norma Cossetto, le testimonianze ci furono e il contesto difficilmente lascia dubbi. Si legge anche che difficilmente un corpo che precipita per un centinaio di metri in una foiba può rimanere intatto dopo la caduta, e che quindi i segni dei traumi potrebbero essere attribuite agli urti; neppure questo è sempre vero, e il caso di Evelyn McHale, che saltò da un grattacielo a New York e rimase poi ferma, come addormentata, sul tetto di un’auto, è rimasto anch’esso nella storia. Chi vide il corpo di Norma Cossetto riferì di pugnalate, di una ragazza violata in modo bestiale, e di non poter sopportare il ricordo di quell’immagine.

Si è scritto che Norma Cossetto fu: “una tra i milioni di donne vittime della guerra”; è così, e proprio per questo è giusto parlarne. Per non lasciare che “una fra milioni” diventi sinonimo possibile di un – detto sottovoce, mezzo fra le righe: “in fondo non contava nulla”.






Roberto Srelz
https://trieste.news
Giornalista iscritto

Difendere la Memoria - 04/07/2024 20:56

Norma Cossetto, studentessa universitaria istriana, torturata, violentata e gettata in una foiba. È stata uccisa dai partigiani di Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943. Le foibe sono voragini rocciose a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione di corsi d’acqua, tipiche della zona carsica.

La sua storia è emblematica dei drammi e delle sofferenze delle donne dell'Istria e della Venezia Giulia negli anni dal 1943 al 1945. Colpevoli spesso di essere mogli, madri, sorelle o figlie di persone ritenute condannabili dal regime, molte donne in quegli anni vennero catturate al posto dei loro congiunti, usate come ostaggi o per scontare vendette personali.

Norma nasce a Santa Domenica di Visinada (Labinci), piccolo borgo agricolo dell’entroterra istriano, non lontano da Parenzo, o Pore?, territorio ora appartenente alla Croazia. I suoi genitori, Giuseppe e Margherita, sono possidenti terrieri non facoltosi ma benestanti secondo gli standard dell’epoca. Norma frequenta al suo paese la scuola materna e quella elementare fino alla classe quarta, e poi si trasferisce a Gorizia, dove frequenta il liceo classico conseguendo nel 1939 la maturità con ottimi voti.

Alla fine dell’estate si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, all’Università di Padova, superando brillantemente tutti gli esami. Nell’ottobre del 1941 ottiene una supplenza come insegnante di lettere al liceo Gian Rinaldo Carli di Pisino e l’anno seguente consegue un nuovo incarico presso l’Istituto Magistrale Regina Margerita di Parenzo. Riesce ad ottenere anche brevi docenze a Spalato ed Albona, coronando così il suo sogno di intraprendere la professione di educatrice.

I suoi contemporanei la ricordano come una giovane ragazza dedita allo sport, molto portata per gli studi e le lingue straniere. Parla bene il francese e il tedesco. Si dedica anche allo studio del pianoforte, ama il canto e la pittura.

Fidanzata con un incursore dei mezzi d’assalto della Regia Marina, Norma è una ragazza ben inserita nel contesto sociale in cui vive. Suo padre è un proprietario terriero molto stimato a Santa Domenica di Visinada avendo contribuito allo sviluppo della vita agricola e sociale del paese quale Commissario Governativo delle Casse Rurali per l’Istria, una carica questa che gli ha permesso di aiutare gli indigenti del luogo. Podestà di Visinada per molti anni e segretario del Fascio locale prima della guerra, il padre di Norma diventa in seguito Capo Manipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.

Nell’estate del 1943, Norma gira in bicicletta per i comuni dell'Istria raccogliendo materiale per la sua tesi di laurea, intitolata L'Istria rossa e dedicata allo studio del territorio istriano ricco di bauxite. Nello stesso periodo, la famiglia Cossetto si vede costretta a lasciare Visinada perché, all’arrivo dei partigiani titini in paese, iniziano le minacce dirette verso i vari componenti della famiglia. Il padre Giuseppe è costretto pertanto a trasferirsi per un breve periodo a Trieste. Gli zii Giovanni ed Emanuele, fratelli del padre, vengono arrestati rispettivamente il 16 e il 24 settembre e subito condotti a Pisino.

Il 25 settembre un gruppo di partigiani titini irrompe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Il giorno successivo prelevano Norma che viene portata nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i partigiani la tormentano, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare con il Movimento Popolare di Liberazione. Al netto rifiuto, viene rinchiusa con altri parenti, conoscenti ed amici nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo. La mattina seguente alcuni membri della famiglia Cossetto cercano di farle visita portando cibo e vestiario di ricambio ma vengono allontanati con la scusa che l’indomani tutti gli arrestati sarebbero ritornati alle proprie abitazioni. È il 30 settembre e la mattina seguente invece della liberazione giunge un nuovo ed inaspettato trasferimento. I tedeschi sono in procinto di arrivare a Parenzo e uno degli ultimi autocarri a lasciare la città prima della colonna germanica è quello dei prigionieri che il Comitato Popolare di Liberazione manda ad Antignana, dove vengono rinchiusi, prima nella ex caserma dei Carabinieri, ed in seguito nell’edificio della locale scuola. La situazione repentinamente precipita perché i componenti del presidio partigiano iniziano a torturare e malmenare tutti i detenuti. Tutte le donne vengono violentate e seviziate. Norma, che continua a rifiutare ogni collaborazione con il Movimento Popolare di Liberazione, viene portata in una stanza a parte dell’edificio, spogliata e legata ad un tavolo. Qui è ripetutamente violentata da diciassette aguzzini, e dopo giorni di sevizie viene gettata nuda nella foiba di Villa Surani, sita alle pendici del Monte Croce, vicino alla strada che da Antignana porta al villaggio agricolo di Montreo. È la notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943.

Il 13 ottobre 1943 i tedeschi ritornano in paese e, a seguito della cattura di alcuni partigiani titini, riescono a fornire informazioni attendibili a Licia, sorella di Norma, sul destino del padre e della sorella, confermando l’esecuzione di entrambi. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del Fuoco di Pola, al comando del maresciallo Arnaldo Harzarich, recuperano la salma di Norma: rinvenuta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate, un pezzo di legno conficcato nei genitali.

La salma di Norma viene composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei vengono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma della giovane donna, prima di venire fucilati dai tedeschi il mattino seguente.

Ai funerali di Norma, che verrà tumulata nella tomba di famiglia a Santa Domenica di Visinada assieme al padre, partecipa un grande numero di persone.

Nel dopoguerra, l’8 maggio 1949, il Rettore dell'Università di Padova, Aldo Ferrabino, su proposta di Concetto Marchesi e del Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia, le conferisce la laurea ad honorem, specificando che Norma è caduta per la difesa della libertà.

L'8 febbraio 2005 l'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi concede alla giovane istriana la medaglia d'oro al merito civile.

Il 10 febbraio 2011 l'Università degli Studi di Padova e il Comune di Padova, nell'ambito delle celebrazioni per la Giornata del Ricordo in memoria delle vittime delle Foibe e dell'esodo giuliano-dalmata, scoprono nel Cortile Littorio del Palazzo del Bo' una targa commemorativa.

Il Comune di Limena (Padova) nell'aprile 2011 dedica a Norma la Biblioteca Comunale. Diverse città italiane le dedicano una via come ad esempio, il Comune di Narni (Terni) nel luglio 2011, e il Comune di Bolzano nell’ottobre 2012.

La vita e soprattutto la morte di Norma – o meglio le ragioni delle violenze subite e della sua uccisione – continuano tuttavia a essere oggetto di interpretazione politica, in particolare il suo presunto legame diretto con il fascismo. Ricerche d’archivio avvalorano di contro la tesi che Norma ha sempre dimostrato un totale disinteresse per la politica. Norma, come molte altre centinaia di donne e uomini infoibati, è stata uccisa perché colpevole di abitare un’area geografica oggi divisa tra Italia, Slovenia e Croazia. In questo senso, la figura di Norma e la sua rilevanza storica si devono leggere storicamente e politicamente perché questa giovane donna è una delle tante vittime dell’etnicidio che nel 1943 e nel 1945 ha sconvolto queste aree di confine.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Norma Cossetto
Archivio dell’I.R.S.M.L.T., documento n.346
Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, Milano, Mondadori, 2003

Frediano Sessi, Foibe rosse. Vita di Norma Cossetto uccisa in Istria nel '43, Venezia, Marsilio, 2007

Marco Pirina, 1943-1945. Donne nella guerra civile italiana tra Gladio e Stella Rossa, Pordenone, Centro Studi e Ricerche Storiche Silentes Loquimur, 2008

Luciano Garibaldi e Rossana Mondoni, Nel nome di Norma. Norma Cossetto, la tragedia dell'Istria e altre vicende a Trieste e sul confine orientale italiano, Chieti, Solfanelli, 2010; 2011

Nicoletta Policek, Women and the Foibe. Forget her Not!, Saraswati Newsletter, Agosto, 2011, p.4

Gianni Oliva, Esuli. Dalle foibe ai campi profughi. La tragedia degli Italiani di Istria, Fiume e Dalmazia, Milano, Mondadori, 2011

Referenze iconografiche: Norma Cossetto nel 1943. Immagine in pubblico dominio.

Nicoletta Policek
Criminologa, docente universitaria presso l’University of Lincoln, Gran Bretagna, dove è responsabile del corso di Master Gender, Globalisation and Sexuality. Si occupa di Diritti Umani, Genocidio e Crimini di Guerra. Esperta e studiosa delle Differenze di Genere, si interessa in particolare di violenza perpetrata sulle e dalle donne in situazioni belliche. Attualmente è impegnata nel redigere una monografia sulle donne e la giustizia globale.

Tuteliamo le donne - 04/07/2024 19:47

Norma Cossetto, studentessa universitaria istriana, torturata, violentata e gettata in una foiba. È stata uccisa dai partigiani di Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943.

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