Il corpo di Alexey Navalny
Il corpo di Alexey Navalny
Giovanni Savino
La morte di Alexey Navalny, oltre a segnare un ulteriore salto di qualità nella spirale repressiva in Russia, afferma, ancora una volta, la sua immagine come principale oppositore del sistema politico rappresentato da Vladimir Putin. La mancata consegna della salma ai familiari per consentire, secondo quanto comunicato, ulteriori analisi per stabilire le cause del decesso sembra voler sottolineare l’importanza del corpo come simbolo e incarnazione della lotta politica e affermazione della propria testimonianza al mondo. Nel caso del prigioniero Navalny si tratta dell’ultima sfida alla narrazione del Cremlino.
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Alto, di bella presenza, gli occhi chiari, il viso squadrato e espressivo, il suo “privet, eto Navalny” (ciao, qui è Navalny che parla) è diventata un’espressione virale negli anni Dieci, e c’è da dire che vi è sempre stata una enorme attenzione ai meccanismi della rete nel poter portare avanti la propria battaglia: nel 2019 un suo selfie, in primo piano, dietro di lui la moglie Yulia con una padella in mano come per colpirlo, divenne un meme che inondò pagine social, e lo stesso politico si prestò a una selezione delle rielaborazioni più divertenti, indice non solo di un certo senso dell’umorismo ma della comprensione profonda di come funziona internet. E d’altronde è stato proprio il passaggio online, prima con un blog alquanto seguito su LiveJournal, piattaforma popolare in Russia a partire dal primo decennio del Duemila, e poi su Twitter, Facebook, Instagram, con inchieste girate e pubblicate su YouTube, a rendere l’attivista Navalny un fenomeno di massa, una sorta di avatar dell’opposizione a Vladimir Putin, capace di parlare a segmenti diversi di una società profondamente atomizzata. Le fotografie dell’allora blogger in piazza sono numerose, e aumentano a dismisura con la crescita della sua esposizione, in un tentativo, spesso riuscito, di dettare l’agenda politica almeno a livello social e mediatico, utilizzando anche quanto veniva rovesciato addosso alla sua figura da parte dei media ufficiali e delle autorità, irritate prima e inferocite poi da questa capacità. Vladimir Putin non ha mai fatto il nome di Alexey Navalny in nessuna circostanza, anche quando vi son stati scandali e attacchi, nemmeno dopo l’avvelenamento subito in Siberia e l’intervento (salvifico) del governo tedesco per portarlo via da Omsk; non è paura della figura di uno sfidante, parecchio più giovane, in grado di metter in discussione i principi su cui si regge il sistema russo, ma la volontà di ridurre la sua figura a qualcosa di trascurabile, insignificante, indegno di nota per il presidente che agiva su scala globale e non aveva tempo per le parole di un cittadino qualunque. “Chi ha bisogno di lui?” così nel dicembre 2020 Putin rispose a una domanda di un giornalista del media Life.
Eppure è stata proprio l’immagine del cittadino qualunque a far guadagnare autorità a Navalny, che prima dell’avvelenamento si muoveva in metro, andava a far la spesa, persino ai concerti (a me è capitato di incontrarlo a vedere i Depeche Mode nel luglio 2017, subito accerchiato da quattro solerti agenti), una differenza importante che ha sfruttato in senso populista. La ricerca della sintonia con l’opinione pubblica russa è sempre stata la sua guida per l’azione, e ha prodotto anche tentativi di sfondamento a destra, con la fondazione nel 2007 del movimento Narod (Popolo) assieme allo scrittore Zakhar Prilepin e al leader nazional-bolscevico pietroburghese Andrei Dmitriev: gli spot girati da Navalny, utilizzando anche la sua popolarità online, sono ormai diventati noti anche in Italia, meno però si parla del destino di Prilepin e Dmitriev, diventati attivi sostenitori della guerra in Ucraina, con tanto di partecipazione al conflitto in Donbass dal lato dei separatisti. Anche alcuni aspetti della piattaforma programmatica, come il monitoraggio della russofobia e la rivendicazione delle terre storicamente russe, tra cui la Crimea e il sud-est ucraino, non vengono spesso ricordati, ed è interessante notare come questi punti siano diventati parte della linea del Cremlino. E da cittadino qualunque allora nazionalista Navalny partecipa ripetutamente alla Russkii marsh, la marcia russa, appuntamento annuale dell’estrema destra, vedendo nella xenofobia un fenomeno in ascesa nella società; era il tempo in cui l’11 dicembre 2010 migliaia di ultras si radunarono in piazza del Maneggio, nei pressi del Cremlino, per chiedere la cacciata di tutti i caucasici e gli immigrati dell’Asia Centrale dopo l’omicidio di un tifoso dello Spartak Mosca ucciso in una rissa; dopo aggressioni a chiunque avesse un “aspetto non slavo”, l’allora premier Putin si recò a rendere omaggio alla tomba della vittima. E il volto assorto del blogger, attorniato dalle bandiere nero-oro-bianche, tricolore imperiale diventato simbolo dell’estrema destra, appare in numerose fotografie, ripubblicate anche oggi.
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Con l’annessione della Crimea nel 2014 e lo scoppio del conflitto in Donbass, le posizioni xenofobe e nazionaliste vengono messe da parte, e inizia ad esserci una maggiore sensibilità sui temi sociali e della pace, culminata con l’organizzazione di proteste contro la riforma pensionistica del 2018 e il varo di una piattaforma, in occasione del primo anniversario dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, in cui si rivendicano il rispetto dei confini internazionali e la revisione delle privatizzazioni selvagge degli anni Novanta, con una messa in discussione alquanto netta dell’eredità politica di quel periodo.
Il volto verde, in una tonalità che lo rende somigliante a un travestimento da Hulk per Carnevale, e le mani della stessa tinta, attorniato dai suoi cari e dai suoi collaboratori: così appare in un altro celebre selfie Navalny il giorno in cui gli attivisti di una organizzazione nazionalista, SERB, il 27 aprile 2017, lo colpiscono con la zelenka, la tintura di anilina verde usata come disinfettante e per qualche tempo come arma contro gli oppositori. Viene operato all’occhio, ma la foto resta e sembra voler dire, lo sguardo dritto, che non potranno fermarlo, forse non presagendo ancora cosa sarebbe accaduto in seguito. L’essere stato una presenza impossibile da piegare, indisponibile al compromesso, ma mai ridotta alla testimonianza e al vittimismo ha reso possibile trovare, nelle manifestazioni mai autorizzate, a protestare uomini e donne, spesso molto giovani, di orientamento diverso, perché vedevano in Navalny una possibilità di poter esprimere la propria contrarietà, e il suo essere lì, in Russia, trascinato in un cellulare o in viaggio per aprire un nuovo comitato di sostenitori, ha reso la sua figura un catalizzatore, un punto di riferimento per tanti. La mancata al momento restituzione del corpo ai suoi cari riconosce questo aspetto, perché vi è il dilemma per il potere delle esequie e della sepoltura: se i funerali si svolgeranno in Russia e Navalny verrà seppellito in patria, si verrebbe a creare un momento di protesta e un luogo di memoria; se invece l’opzione sarà di inviare la sua salma all’estero, il probabile omaggio internazionale segnerebbe ancor di più lo status attuale del Cremlino in Europa. Ancora una volta i funerali, “onore di pianti” di foscoliana memoria, diventano parte della politica e della storia della Russia e possono spiegarci molto di essa.
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