Psichiatria punitiva: un’arma contro il dissenso
Dall’URSS al fascismo, fino ai giorni nostri. Una delle armi più utilizzate contro giornalisti, attivisti e dissidenti è la psichiatria punitiva.
Conflitto Russia-Ucraina: giornalista russa spedita in un ospedale psichiatrico
Il tema della psichiatria punitiva a scopi politici è tornato sotto i riflettori con l’arresto di Maria Ponomarenko, giornalista russa che denunciò l’attacco al teatro di Mariupol.
Lo scorso aprile, la polizia ha arrestato Ponomarenko a San Pietroburgo per “diffusione di informazioni false sulla base di odio politico, ideologico, razziale, nazionale o religioso”.
Il 2 luglio è stata trasferita in un ospedale psichiatrico siberiano, dove rimarrà sotto osservazione per 28 giorni.
La reclusione di dissidenti politici, attivisti e giornalisti è un’arma politica molto utilizzata nei regimi autoritari, a partire dall’URSS.
“È schizofrenico”: zittire il dissenso nell’URSS
Fino alla seconda metà del ventesimo secolo, le strategie più utilizzate contro i dissidenti erano l’arresto e la fucilazione.
Tra gli anni ’20 e ’30, nell’Unione Sovietica, si cominciò a studiare la schizofrenia e si individuarono tre tipi di malattia:
Schizofrenia di tipo continuo: procede in modo rapido o lento
Schizofrenia periodica: attacco isolato a cui segue una remissione
Schizofrenia in forma mista: crisi isolate e periodiche
Negli anni ’60, il direttore dell’Istituto di Psichiatria dell’Accademia sovietica Andrei Snezhnevsky, introdusse una nuova classificazione, in cui incluse la “schizofrenia lenta“.
Si trattava di una malattia latente, che si sviluppava nel tempo. Ciò significa che un qualunque comportamento particolare sarebbe potuto essere considerato un campanello d’allarme.
La diagnosi si basava, infatti, su sintomi molto comuni e non psicotici. Tra questi: religiosità, stravaganza eccessiva, pessimismo, originalità, scarso adattamento sociale, disprezzo dell’autorità.
I parametri della diagnosi erano talmente vaghi e sfumati che chiunque, pur non soffrendo di alcuna patologia, sarebbe potuto essere internato.
Era sufficiente diffondere poesie o volantini contro il regime per essere considerati malati di mente.
A questo proposito, nel 1959, sul quotidiano Pravda, Crushev dichiarò:
Si può dire che ci sono anche adesso delle persone che lottano contro il comunismo…ma queste persone, evidentemente, non si trovano in una condizione psichica normale.
Solo un pazzo può schierarsi contro il socialismo
Una volta giudicato malato, il paziente poteva essere trasferito in un ospedale psichiatrico comune o in uno “speciale”.
La terapia comprendeva la somministrazione di potenti sedativi tra cui aminazina, aloperidolo, trifluoperazina. Gli effetti collaterali colpivano i reni, il fegato, gli apparati cardiovascolare ed endocrino, la pelle, gli occhi, lo stomaco e l’intestino.
E in caso di ribellione, lo schizofrenico veniva legato, picchiato o sottoposto a elettroshock.
Le stime riportano migliaia di attivisti politici e dissidenti internati per “schizofrenia lenta”.
Indagini svolte in soli 5 ospedali psichiatrici russi hanno rilevato oltre 2000 schede di diagnosi.
Inoltre, secondo un’inchiesta pubblicata nel 1993 da Current Psychology, i “malati” venivano internati prima di ogni celebrazione di regime e rilasciati a festeggiamenti conclusi, in modo che non creassero disordini.
Nel 1987, alla morte di Snezhnevsky, la medicina cominciò a prendere le distanze dalla psichiatria punitiva.
Tuttavia, Anatoly Smulevich, che contribuì agli studi del dottor Snezhnevsky, non ha mai rinnegato le teorie dello psichiatra.
Oggi ricopre un ruolo autorevole nei programmi psichiatrici nazionali ed è autore di trattati sulla paranoia e sulla schizofrenia.
Pazienti psichiatrici nell’URSS
Uno dei casi più famosi di dissidente sovietico internato in psichiatria è quello di Vladimir Konstantinovic Bukovskij.
Scettico e dissidente fin da giovane, organizzava incontri di poesia nel centro di Mosca.
Nel 1963 gli venne diagnosticata la “schizofrenia lenta”, e fu detenuto in un ospedale psichiatrico fino alla fine degli anni ’60.
Nel 1971, Bukovskij fece giungere in Occidente un documento di 150 pagine in cui descriveva e denunciava la psichiatria punitiva.
Nei suoi scritti parlava di somministrazione di droghe pesanti, torture e maltrattamenti da parte di coloro che erano realmente malati.
L’anno successivo alla pubblicazione, la polizia arrestò Bukovskij per aver diffuso documenti riservati con giornalisti occidentali.
Mentre si trovava in carcere, Bukovskij scrisse il “Manuale di psichiatria per dissidenti“, per aiutare altri attivisti a combattere gli abusi delle autorità.
Nel 1978 pubblicò la sua autobiografia “Il vento va e poi ritorna” , dove racconta la sua vita da dissidente e internato psichiatrico.
Altro paziente famoso è Josif Brodskij.
Poeta e dissidente, venne processato nel 1964. Gli avvocati, nel tentativo di concludere il processo, scelsero (erroneamente) di richiedere una perizia psichiatrica.
Le autorità internarono Brodskij nell’ospedale psichiatrico di Leningrado, il quale descrisse quell’esperienza come “la più pesante di tutto il periodo sovietico”.
In particolare, descrisse la tortura dell’ukrutka, a cui erano sottoposti i malati più gravi e che lui stesso subì.
La tortura consisteva nel gettare la vittima in una vasca di acqua gelida, avvolto stretto in un lenzuolo.
Dopo di che, il paziente veniva messo vicino ai caloriferi ad asciugare. Le lenzuola, asciugandosi, si stringevano intorno al corpo provocando intenso dolore, svenimenti, crisi respiratorie e, nei casi peggiori, la morte.
Fortunatamente, il tribunale giudicò Brodskij sano di mente all’udienza successiva.
L’arma della psichiatria punitiva nel Ventennio
La psichiatria punitiva, tuttavia, non è un’esclusiva del regime sovietico.
A partire dal 1927, il regime di Benito Mussolini cominciò a utilizzare l’internamento coatto come strumento di repressione.
Dissidenti politici e antifascisti erano considerati “nemici dell’Italia” e “portatori di idee malsane“, perciò pazzi.
In particolare, l’internamento riguardava i reietti della società, più facili da additare come malati di mente. Vagabondi, pregiudicati, alcolizzati, prostitute.
Ma a farne le spese furono soprattutto le donne, condannate al manicomio con sintomatologie tra cui: stravagante, loquace, capricciosa, erotica, smorfiosa, piacente, civettuola.
Ma anche donne che non volevano figli, che lavoravano nei campi invece di stare in casa, o che non erano in grado di svolgere le loro funzioni di madri e mogli.
All’interno dei manicomi, i pazienti subivano terapie violente che comprendevano la malarioterapia (iniezione del virus della malaria per causare uno shock) e l’elettroshock.
Negli ospedali mancavano il cibo, il riscaldamento, l’igiene e le medicine. Per questo motivo, il tasso di mortalità all’interno dei manicomi era molto più alto rispetto a quello della popolazione generale.
Durante il Ventennio, gli internati che persero la vita furono tra i 24 e i 30mila.
Tra gli internati ci furono persino Ida Dalser e il figlio Benito Albino, nato nel 1915 da una relazione con il Duce.
Ma lo stesso anno Mussolini sposò Rachele Guidi, dalla quale era nata Edda nel 1910.
Ida non prese bene l’allontanamento dell’amante, e cercò di far valere la propria posizione di prima compagna del Duce e madre di suo figlio.
L’agitazione di Ida la condannò al manicomio, dove subì torture fino alla morte nel 1937.
Lo stesso destino toccò al figlio, che trascorse la vita sotto la sorveglianza della polizia politica.
Internato a Milano, morì di consunzione nel 1942.
Questa pratica aumentò durante la Seconda Guerra Mondiale, colpendo coloro che rifiutavano la leva militare o che cercavano di scappare.
L’accusa era di “non essere in grado di comprendere le leggi del regime“, il che significava avere dei problemi mentali.
Solo nel 2017 la Società Italiana di Psichiatria ha rilasciato delle scuse ufficiali per il comportamento adottato dal regime.
Le vicende della psichiatria in quegli anni è stato uno dei capitoli bui. La Sip si lasciò corrompere, perdemmo la consapevolezza dei nostri obblighi verso la dignità, verso gli individui, di qualunque etnia facessero parte.
Di quanto è accaduto ci vergogniamo profondamente. Chiediamo ammenda e ci scusiamo per aver aderito a ideologie che calpestano la dignità dell’uomo giudicandolo sul suo valore della vita.
La psichiatra punitiva in Cina
Alcuni regimi, tra cui la Cina, utilizzano ancora oggi l’internamento psichiatrico come arma politica.
Questo avviene soprattutto nei periodi più “a rischio”, come l’annuale sessione di lavori nel Parlamento, in cui gli attivisti si espongono maggiormente.
Tra le vittime c’è Lu Liming, attivista di Shanghai, internato e torturato a Pechino.
Secondo quanto riportato, Liming sarebbe stato arrestato da alcuni intercettatori del governo per impedirgli di indire una petizione.
Io sono normalissimo, non ho nessuna malattia mentale. Mi hanno legato a un letto dell’ospedale di Changping per due giorni e due notti.
Mi hanno obbligato ad assumere molti medicinali mentre mi tenevano legato e sono stato così male che volevo morire.
Ancora oggi, a causa delle percosse, la mia testa è gonfia e mi fa male
Secondo Liming, l’internamento psichiatrico è un mezzo di repressione politico.
Chi porta petizioni al governo centrale o provinciale, per quanto sia legale, è considerato un nemico.
Il sistema di sorveglianza è sempre più rigido e qualunque cosa possa minacciare il mantenimento del potere da parte del partito è visto come una minaccia. Gli ospedali psichiatrici sono solo un mezzo di repressione tra gli altri
Una volta internato, il paziente viene ammanettato a polsi e caviglie e non può ricevere visite dai parenti.
Inoltre, può essere rilasciato solo con il consenso della polizia, che si ottiene generalmente firmando un documento in cui si dichiara di non portare mai più petizioni al governo.
Un altro caso famoso è quello dell’attivista cinese Zhu Jindi.
La sua punizione non è stata l’internamento, ma l’internamento del figlio.
L’hanno rinchiuso per 51 giorni e nessuno della nostra famiglia è stato informato.
Poi un giorno un tribunale ha sentenziato che doveva ricevere trattamenti psichiatrici. Durante il soggiorno è stato legato alla “panca della tigre” giorno e notte. L’hanno poi legato mani e piedi al letto, costretto a urinarsi e defecarsi addosso
Nel 2013 il governo cinese ha varato una legge che impedirebbe la psichiatria punitiva.
Ma le associazioni per i diritti umani evidenziano che non sempre si applica la legge.
L’ultimo report del China Rights Observer riporta, infatti, che nel 2016 sono stati più di 30 gli attivisti politici rinchiusi in ospedali psichiatrici senza diagnosi reali.
Anche se oggi, in gran parte del mondo, i manicomi non esistono più, la pazzia è ancora un’arma potente per togliere la voce ad attivisti, dissidenti e giornalisti
Giulia Calvani
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