Militia Cristi sul conflitto in Terra Santa
Considerazioni del nostro vicepresidente sul conflitto in corso in Terra Santa.
Sono giunto ad una fase della mia vita in cui mi sorge difficile relativizzare la questione etica, soprattutto quando chiama in causa peccati gravissimi.
Non ho più intenzione di tirarmi indietro davanti al dovere di condannare con decisione parti che ho supportato e supporto: vale nelle Crociate, nella guerra civile spagnola, nel tremendo conflitto in corso in Ucraina e, oggi, deve valere per le violenze commesse da Hamas.
E poco importa che alcune delle vittime stessero partecipando ad un rave provocatorio a pochi km dal confine e sulla base di questa o quell'istanza non sia possibile definirle poi così "innocenti": una seria coscienza teologica dovrebbe rammentarci che nessuno è innocente.
Chi scrive e chi legge compresi.
Ma questa consapevolezza, anziché affilare le nostre armi (quando ne siamo dotati), dovrebbe responsabilizzarle; anche contro il buon senso militare, anche contro ogni strategia e tattica.
Chiarito ciò, in queste ore non posso esimermi dal ribadire un principio: è intellettualmente onesto sul piano teorico smarcare la causa palestinese non solo da Hamas, ma anche da partitismi sgraditi.
La lotta dei palestinesi non può essere ridotta all'esuberanza di certo jihadismo sunnita perché è stata ed è di tutti gli arabi di Terra Santa, in un contesto dove le fazioni sono state tante, così come le idee di Stato palestinese proposte ed un'eterogeneità religiosa infinitamente minore di vicini come la Siria ed il Libano ma comunque indiscutibilmente presente (prima dell'occupazione il numero di cattolici a Betlemme era ragguardevole, ad esempio).
Resta utopico, ma comunque legittimo, immaginare una Palestina multiconfessionale e tollerante non solo verso l'Ebraismo inteso strettamente (e rettamente) come componente demografica religiosa, ma degli europei ivi trasferitisi ormai molte generazioni orsono.
Replicare un simile esercizio con lo Stato d'Israele risulta invece impossibile.
Il sionismo è la base artificiale e costitutiva di quell'autorità pubblica, ben più importante dei relativamente recenti afflati religiosi volti a coltivare la comunità di ebrei haredi oggi residenti nella Cittadella di Gerusalemme.
Senza l'ideologia sionista, l'architrave che tiene legata l'archeologia linguistica, il mito mobilitante etnoculturale e la stessa missione "soteriologica" di Tel Aviv verrebbe immediatamente meno e si dovrebbe parlare di europei, americani, australiani, amerindi, siberiani trasferitisi (in larga parte negli ultimi decenni) non in aree spopolate ma in una regione con centri urbani millenari, per di più ai danni di chi (cristiano, musulmano, druso e persino ebreo) la abitava da secoli.
La Palestina potrà avere una bandiera creata dal panarabismo, potrà ad oggi dividersi tra una costituzione ispirata al socialismo arabo ed una al nazionalismo islamico, ma resta una nazione retta da uno stato virtuale ed in larga parte occupato militarmente da una forza ostile.
Dall'altra parte, vi è l’artificiale e più o meno coerente concretizzazione di ideali ottocenteschi ben più vicini, per aderenza al dato reale (storico, etnico, culturale e linguistico), al movimento esperantista che alle "primavere dei popoli" che avvenivano in quelle stesse decadi e a cui pur si ispira.
Permettetemi allora di concludere con una massima sostanzialmente fregata a Michael Scott di The Office e più volte utilizzata da altri nell'argomentarmi contro con formulazioni diverse:
«...Persone Ryan. E le persone [a differenza delle ideologie, ndr] non vanno mai in fallimento.»
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