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  • 31/05/2023 18:54

Psichiatra: un mestiere pericoloso per sé e per gli altri

Psichiatra: un mestiere pericoloso per sé e per gli altri I colleghi che oggi lavorano nella Psichiatria dei servizi pubblici non ce la fanno più ad operare in condizioni di costante emergenza con situazioni in cui la richiesta prevalente è controllare la devianza comportamentale. Tanti colleghi si stanno rendendo conto che non si muovono più all’interno di un mandato propriamente “medico”, ma di essere intrappolati da un confuso mandato sociale della cui realizzazione saranno chiamati a rispondere. Il sistema di cure che abbiamo costruito per trattare il disagio psichico è in piena crisi. Mentre scrivo queste considerazioni 91 responsabili di Servizi Psichiatrici hanno inviato alle più alte cariche dello Stato una lettera (gennaio 2023) che è la presa d’atto della sconfitta sul campo degli ideali della riforma del 1978. I Servizi sono tuttora pensati a misura della chiusura dei manicomi e non ce la fanno più di fronte al drammatico aumento delle nuove e inedite richieste di aiuto. Con quel poco che il Sistema Sanitario mette a loro disposizione i Servizi e gli psichiatri devono fare tutt’altro: sono gli esausti funzionari dell’ordine pubblico. Come e perché è accaduto questo? La 180/78 nacque con un “tallone d’Achille” Un accenno ai valori contenuti in quella legge. Le battaglie per la psichiatria culminarono nel 1978 con l’approvazione della legge 180 e successivamente (1978) con la sua entrata nel costituendo Sistema Sanitario Nazionale (improntato ai principi di: universalità, uguaglianza ed equità). La 180 sancì la chiusura dei manicomi, ma con la 833 la psichiatria entrò a pieno titolo nella Medicina e nella Sanità senza più afferire al Ministero degli Interni. Tuttavia, la neonata legge nacque con un tallone d’Achille: ignorava deliberatamente il tema della “pericolosità del malato di mente”. Fin dal tardo Ottocento la Psichiatria italiana trovava nella sempiterna “pericolosità del malato di mente” il suo specifico oggetto di competenza che ne legittimava il prestigio, il potere scientifico e quello di intervento (Montanari, 2013). Le mura manicomiali erano necessarie perché difendevano dal malato di mente per definizione “pericoloso”. La Legge 180 aveva abbandonato completamente il concetto di pericolosità, non lo menzionava nemmeno, perché metteva al centro del suo dispositivo il concetto di “malattia”, la volontarietà delle cure e il diritto alle stesse. Dopo averla medicalizzata la follia entrava a pieno titolo tra le tante possibili “malattie” nel circuito sanitario. Tuttavia, il tema della pericolosità anche se ignorato dalla legge permaneva nella sensibilità sociale, nel Codice penale e nelle aule dei tribunali. Gli autori di reato malati di mente non erano scomparsi, ma dal 1978 fino al 2014 la gestione dei soggetti “pericolosi”, che avevano commesso reati ma non imputabili perché “malati di mente”, era interamente demandata a strutture di detenzione che facevano capo all’amministrazione della Giustizia (gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, OPG). Alcuni hanno descritto questo stato di cose come un sistema a doppio binario. Il ritorno del matto “pericoloso a sé e gli altri” Nel 2014 il Decreto-legge 81/2014 stabilì d’autorità la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). L’intento di quel provvedimento era innanzi tutto quello di superare le condizioni di indecenza riscontrate in alcuni OPG e offrire cure sanitarie più appropriate presso i Dipartimenti di Salute Mentale anche ai “malati mentali” autori di reato. Intento più che condivisibile ma ecco un primo passaggio cruciale: nel 2014 per Decreto-legge anche il malato di mente “pericoloso” entrava nella Sanità. Nel precedente sistema manicomiale il “matto” non faceva parte della Sanità, in esso sia gli operatori che i degenti facevano capo alle amministrazioni Provinciali e tramite queste al Ministero degli Interni; anche in questo senso la 833/78 aveva cambiato tutto. Alcuni interpretarono il Decreto-legge del 2014 come un tardivo completamento dello spirito della Legge 180, mentre altri (Tarantino, 2014) hanno fatto notare che il percorso di questo Decreto-legge era stato esattamente l’opposto del fermento culturale e di idee che negli anni ‘60-70 aveva portato alla chiusura dei manicomi e alla Legge del 1978. Per la chiusura degli OPG non vi era stato alcun dibattito tra psichiatri, anzi gli psichiatri erano stati tenuti all’oscuro e hanno detto ben poco[1]. Il Decreto del 2014 era nato in un clima emergenziale (occorreva svuotare un sistema carcerario sovraffollato), che coagulò un consenso trasversale tra i partiti attorno a una critica morale e poi è stato calato dall’alto sul sistema dei Dipartimenti di salute Mentale già provati dalla crescente riduzione di risorse. Occorre notare che dal punto di vista psichiatrico dall’approvazione della Legge 180 nel 1978 al 2014 non vi erano state nemmeno acquisizioni scientifiche (teoriche, tecniche o terapeutiche)[2] tali da giustificare quel provvedimento, né la legislazione né il Codice Penale erano mutati. Negli anni precedenti c’era stata una sola novità: la definizione per via giudiziaria di una specifica “posizione di garanzia” in capo allo psichiatra. Ecco il precedente decisivo. La Cassazione stabilisce come si “cura” la pericolosità Trent’anni dopo la Legge 180/78 la Cassazione Penale (Sezione IV, sentenza n. 10795/2008) aveva rimesso il tema della “pericolosità” al centro della pratica psichiatria stabilendo che lo psichiatra ha l’obbligo di controllare la pericolosità del malato di mente attraverso la pratica terapeutica, ovvero in ragione della sola competenza medico-specialistica. Quella sentenza concludeva l’iter giudiziario di un tragico fatto di sangue: nel 2000 un ex paziente del manicomio di Imola, ospite presso una Comunità, aveva accoltellato uccidendolo un operatore che era andato in camera a portargli la terapia del mattino. La sentenza definitiva del 2008 attribuiva allo psichiatra che aveva in cura il paziente la responsabilità per “omicidio colposo” del crimine commesso dal proprio assistito. Tutti i medici, come tutti i cittadini, sono inevitabilmente responsabili del proprio operato, ma dopo quella sentenza solo gli psichiatri possono essere ritenuti responsabili anche delle azioni/reati dei propri assisti. Per articolare questo passaggio i giudici hanno dovuto recuperare la cosiddetta posizione di garanzia (Codice penale, comma 2° dell’art. 40: “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”). Siamo nel campo dei reati “omissivi impropri”, un capitolo concettualmente complesso e importantissimo. Questa tipologia di reati costringe tutti a pensare con una logica controfattuale, del tipo: si è verificato il tragico evento perché qualcuno non ha fatto quel che avrebbe dovuto fare; per questa categoria di reati si deve dimostrare che ciò che non è stato fatto ha inequivocabilmente causato l’evento dannoso. La “posizione di garanzia” non è una novità perché era presente nel Codice penale italiano già dal Codice Rocco (1930), ma è stata usata per sanzionare i comportamenti professionali dei medici solo settant’anni dopo. Dal 1999 al 2005 la IV Sezione della Cassazione Penale ha confermato sei sentenze nelle quali tale obbligo è stato progressivamente esteso toccando dapprima solo i medici e poi tutto il personale sanitario. Ci troviamo pertanto di fronte a un’evoluzione giurisprudenziale che ha toccato tanti professionisti della Sanità interpretando la posizione di garanzia esclusivamente nei termini della posizione di protezione: il bene protetto è la vita e la salute del paziente da pericoli esterni. All’interno della posizione di garanzia vi è anche la posizione di controllo in cui si tratta di proteggere terzi da una potenziale fonte di pericolo. Provo ad illustrare con due esempi la differenza tra protezione vs. controllo: nel primo caso si pensi alle ignare vittime del crollo del ponte Morandi di Genova, nel secondo al danneggiamento di persone in prossimità di una possibile fonte di pericolo. Di solito percorriamo serenamente un ponte perché non lo riteniamo pericoloso, mentre ci avviciniamo con molta prudenza a una fonte di possibile pericolo. I giudicanti dei primi due gradi di giudizio della sentenza 10795/2008 avevano intrapreso la via della posizione di controllo reintroducendo di fatto il concetto di “pericolosità” del malato di mente, mentre la suprema Corte ha realizzato una vera acrobazia salvando, almeno apparentemente, capra e cavoli. Sottolineando la posizione di protezione ha salvato in apparenza il senso della 180 ma a scapito dei professionisti. Sino al 2007 nei processi che avevano visto coinvolti specificamente psichiatri per casi di suicidio/omicidio si era più volte espressamente esclusa la sussistenza di una posizione di garanzia in capo allo psichiatra[3] perché avrebbe inevitabilmente riaperto il problema del controllo/custodia del malato che era stato esplicitamente escluso dalla legge vigente centrata, come ho detto sopra, sul concetto di malattia e di libertà di cura. La sentenza del 2008 ha cambiato tutto, ecco perché deve essere considerata uno spartiacque all’interno della psichiatria riformata. La magistratura ha interpretato l’omicidio come una sorta di “delitto di terapia”: la vittima non è stata uccisa solo dal coltello del paziente/omicida, ma anche dall’errore terapeutico dello psichiatra. È importante comprendere bene come attraverso la “posizione di garanzia” la Suprema Corte sia giunta all’assimilazione della custodia al concetto di cura. Una vera acrobazia. Ogni medico è gravato dall’obbligo di proteggere il paziente da qualsiasi evento possa causare danno alla salute, all’integrità fisica e alla vita del suo assistito. Ovviamente nessun medico è imputabile per la malattia per cui il paziente si è rivolto alle sue cure. Per quanto riguarda gli psichiatri, la sentenza del 2008 declina questo obbligo in un modo assolutamente unico e specifico: lo psichiatra deve proteggere il paziente anche dalla sua stessa malattia quando questa può essere causa di pericolosità sociale e/o degenerare in comportamenti violenti. In questo modo l’obbligo impeditivo, proprio dell’art. 40 del Codice penale non è in alcun modo speciale, ma è diventato “specialistico”, perché è dovuto alle caratteristiche della malattia mentale da cui sono affetti i pazienti psichiatrici e di cui lo psichiatra dichiara di sapersi occupare. Il pensiero dei magistrati è semplice: il paziente è la prima vittima del suo crimine. Il crimine a sua volta è il diretto prodotto comportamentale della patologia; quindi, quel crimine non è stato compiuto da una persona ma da una malattia che non è stata curata bene: con i farmaci giusti e i dosaggi adeguati non sarebbe accaduto. Dopo quel pronunciamento non esiste più solo una connessione causale tra malattia mentale e commissione del reato (come stabiliva la Legge del 1904 dove la “pericolosità a sé e agli altri” del malato era la condizione necessaria e sufficiente per essere “custoditi/curati” entro le mura manicomiali), ma la Suprema Corte stabilisce un’inedita connessione causale tra trattamento psichiatrico e commissione del reato: curata “bene” la malattia, si evita il reato. L’idea del controllo del “matto” attraverso l’internamento è stata così sostituita dall’idea più moderna, e in apparenza medica, del controllo della malattia attraverso la somministrazione della terapia farmacologica. Grazie agli psicofarmaci la malattia è sotto controllo e il malato, come scrivono gli stessi giudici, è al riparo dalle «conseguenze negative che la sofferenza psichica cagiona» (sentenza n. 10795/2008) compresa la commissione di gesti violenti su di sé o verso terzi. In questo modo non si distingue più tra la cura della malattia mentale e il controllo dell’individuo. La sentenza impone agli psichiatri un’idea di malattia mentale che è presente solo nel comune buon senso (nelle filosofie popolari dominanti), ma è lontana da qualsiasi acquisizione scientifica nel campo della psicopatologia, ovvero del rapporto tra malattia mentale e soggetto, come pure dal campo delle reali potenzialità della psicofarmaco-terapia. Non entro nel merito della scientificità di queste affermazioni, né del loro problematico riduzionismo, ma è utile rilevarne le conseguenze nell’operatività psichiatrica. Quest’utilizzo del concetto di “posizione di garanzia” costruito dalla giurisprudenza in capo allo psichiatra ci suggerisce l’idea che oggi è lo psichiatra a doversi “fare manicomio” (Montanari, 2013), ovvero le mura manicomiali abbattute nel 1978 sono state ricostruite nel 2008 sulle spalle del singolo psichiatra, poiché oggi la cura farmacologica e la relazione “terapeutica” devono fare le veci dell’istituzione chiusa. In questo senso è utile coniare un brutto neologismo: siamo passati dal manicomio (prima del 1978), al territorio (dopo il 1978) e infine ora (dal 2008) al “terricomio”. Questi “obblighi” in capo allo psichiatra valgono nei confronti di ciascun paziente si rivolga alle sue cure e in qualsiasi luogo lo psichiatra svolga la propria professione come è stato confermato da ben sette sentenze successive della stessa Corte (Vasapollo e Cimino, 2021, p. 186). Si può presumere che almeno altrettante siano in corso in altre fasi di giudizio. Per l’opinione pubblica le mura manicomiali rispondevano bene alla necessità, immaginaria, che qualcuno o qualche cosa mettesse i cittadini al riparo dalle condotte dei pericolosi malati mentali. Dopo la Legge 180, e abbattute le mura manicomiali, bisognava però individuare qualcuno che rispondesse dei comportamenti degli “irresponsabili” e trent’anni dopo la fantasia dei giudici lo ha scovato. Appaiono profetiche, a trentacinque anni di distanza, le parole di Franco Bricola. Bricola fu l’illuminato giurista bolognese che per primo elaborò approfonditamente il concetto di “posizione di garanzia” individuandone i vari ambiti di applicazione con attenzione anche ai possibili risvolti problematici. Nel 1990 Bricola fu inviato dagli psichiatri a un convegno e si espresse così sul tema della posizione di garanzia in ambito psichiatrico dopo la 180/78. «Se pur viviamo in un’epoca nella quale l’obbligo giuridico di impedire l’evento deve avere una sua fonte ben precisa, però i giudici qualche volta hanno una fantasia molto spiccata e costruiscono anche degli obblighi giuridici su fonti diverse. (…) Non è però una situazione tranquillizzante, perché nulla esclude che le pressioni che possono venire al giudice dall’esigenza di una tutela dell’incolumità pubblica siano talmente forti da indurlo a costruire delle posizioni di garanzia che non ci sono oggi nel sistema positivo, così come è costruito» (Bricola, 1990). “L’esigenza di una tutela dell’incolumità pubblica” è indipendentemente dall’accertamento di pericolosità; quindi, vale per tutti i pazienti in carico allo psichiatra, ed è presumibile che a maggior ragione valga per i pazienti ex-OPG (non imputabili e pericolosi), per questo ritengo che il pronunciamento del 2008 sia stato la premessa alla chiusura degli OPG e l’affidamento dei rei-folli alle esclusive cure del Servizio Sanitario. Quindi, anche se nulla è cambiato nella legislazione psichiatrica e nelle reali possibilità di cura delle malattie mentali, tutto è cambiato nel mandato di cura dello psichiatra. Al punto tale che oggi può accadere di trovarsi in una curiosa inversione delle parti: il magistrato prescrive la cura (leggi pena) e lo psichiatra ha l’obbligo di attuare la pena (leggi cura). E nessuno degli attori può sottrarsi. Come nel caso di cui parlerò a conclusione di queste considerazioni. La rinnovata “legittimazione” La “posizione di garanzia” per come è stata argomentata dalle motivazioni della Suprema Corte presume, formalizza e impone agli psichiatri comportamenti “terapeutici” specificamente di tipo farmacologico. Ma agli psichiatri questo va bene? Su questo punto gli psichiatri hanno detto ben poco nonostante non dispongano di farmaci, né di tecniche, né di qualsivoglia strumento che consenta di curare la “pericolosità” (che non è una malattia né un sintomo), a patto che non decidano di usare la “farmacoterapia” a dosi talmente generose da farne una di camicia di forza. Perché allora il silenzio? Ipotizzo che il silenzio degli psichiatri derivi da due ordini di ragioni: prima ragione, la sentenza è in linea con la cultura introdotta dal sistema diagnostico imperante in psichiatria dal 1980, ovvero dai vari Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) curati dall’American Psychiatric Association (dal DSM III al DSM 5) e seconda ragione, restituisca alla Psichiatria la sua antica legittimazione. La prima ragione. I vari DSM hanno esplicitamente rinunciato ad ogni ipotesi psicopatologica e promosso l’adozione della Evidence Based Medicine (EBM) ritenendo in tal modo di offrire agli psichiatri una veste scientifica più “oggettiva”; tuttavia, è precisamente l’assunzione del metodo scientifico in assenza di alcuna ipotesi teorica fondante ad escludere la psichiatria dal novero delle scienze e in primo luogo dalla medicina scientifica. Il metodo sperimentale serve solo a validare/confutare delle ipotesi, ma occorre prima averle formulate. Con il DSM 5 il disagio psichico ha perso definitivamente ogni legame con le antiche “malattie mentali” ma anche con la psicopatologia. La formazione dei giovani psichiatri oggi fa inconsapevolmente riferimento ad un certo empirismo filosofico che è insufficiente per sostenere un qualsiasi progetto scientifico. In un suo recente libro Sergio Benvenuto ha notato che una scienza ateoretica è un ossimoro ben “bizzarro”. Nel corso di alcuni decenni la ricerca empirica ha comunque raggiunto significativi risultati dimostrando che gli psicofarmaci funzionano su singole variabili discrete (come ansia, flessione del tono dell’umore, ecc.) che incrociano trasversalmente quadri clinici anche molto differenti e lontani. Il problema per la psichiatria del DSM 5 non è tanto curare l’ipotetica malattia/disordine, ma ridurre farmacologicamente qualche aspetto del complesso e articolato quadro sindromico. Una lettura psicopatologica non ha più alcuna ragion d’essere perché in tutti i quadri clinici sono presenti quote di ansia, umore depresso e/o aspetti psicotici ne deriva che nella pratica psichiatrica assistiamo spesso a prescrizioni multiple, di farmaci a volte della stessa categoria ma con meccanismo di azione (recettoriale) leggermente diverso. Il dettagliato e sempre crescente elenco dei “disordini mentali” dei vari DSM ha però marginalizzato gli psichiatri relegandoli alla farmacoterapia e non si comprende a quale titolo mantengano un primato all’interno della crescente offerta di “care” e cure soprattutto quando si lavora su casi complessi e articolati che necessitano di tante altre professionalità. Anche nei casi più tipicamente psichiatrici, come psicosi e disturbi bipolari, gli psicofarmaci incidono, spesso utilmente, solo su alcuni parametri del quadro clinico, ma questa è solo la premessa che rende possibile il lavoro degli altri professionisti che a loro volta avranno una certa idea delle cause di quel disagio, ovvero una certa idea di “psicopatologia”. Gli psichiatri, attraverso i vari DSM, hanno abbandonato esattamente questo aspetto per rinchiudersi nell’angusto recinto dei mediatori chimici (l’ipotesi che nelle manifestazioni del disagio psichico i mediatori chimici coinvolti nella trasmissione neurorecettoriale svolgano un ruolo rilevante è plausibile, ma è noto che è stata recuperata a valle delle sperimentazioni e non formulata a monte). In medicina si direbbe che la psichiatria utilizzi un criterio ex juvantibus. Passerò ora alla seconda ragione del silenzio. Le sentenze hanno affermato il necessario controllo farmacologico della “pericolosità del malato di mente” ripristinando l’antico connubio ottocentesco tra psichiatria e diritto (Montanari, 2013). La psichiatria è così tornata al centro della cura e ha finalmente ritrovato il suo specifico oggetto di competenza che ne rinnova il prestigio, il potere scientifico e quello di intervento. D’altro canto, sia la società che il sistema giuridico/sanzionatorio riconoscono ben volentieri questo primato agli psichiatri ed essi, a propria volta, fanno tutto il possibile per accaparrarsi questo credito. Sta crescendo il numero di giovani già specializzati in Psichiatria che integrano il proprio curriculum specializzandosi anche in Criminologia. Concordo con Sergio Benvenuto che in un suo recente libro, “Lo psichiatra e il sesso, una critica radicale al DSM 5” (2021), indica con precisione il cul de sac in cui si è cacciata la Psichiatria dei DZSM arrivando a ipotizzare che tra una ventina di anni non si userà nemmeno più il termine psichiatria. Del resto, già oggi sempre più spesso viene considerato “psichiatrico” solo tutto ciò che necessita di un intervento delle forze dell’ordine. Lo stesso DSM 5 non è un elenco di malattie ma di “disordini” (come sarebbe preferibile tradurre Disorders) e gli psichiatri sono chiamati in causa nelle procedure (Trattamento Sanitario Obbligatorio) in cui è necessario imporre un certo “ordine” a comportamenti altrimenti troppo “disordinati”. Eccoli diventati “funzionari” farmacologici dell’ordine pubblico; stanchi interpreti di un mandato sanitario confuso e pericoloso per sé e per gli altri. Un piccolo episodio occorso allo scrivente illustra bene quanto sviluppato nelle righe precedenti. Alcuni anni or sono, successivamente all’entrata in vigore delle sentenze della Corte Costituzionale (253/2003 e 367/2004) sull’applicazione delle misure alternative all’internamento negli OPG, dal magistrato di sorveglianza dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna pervenne al Centro di Salute Mentale dove lavoravo la specifica richiesta di riferire se un paziente, in cura per altri motivi clinici, ma in condizioni di libertà vigilata in seguito a una pena per molestie sessuali, circa «l’adesione alla terapia farmacologica e la conseguente azione sulle capacità di controllo del soggetto». Sempre per lo stesso caso successivamente (dopo un alterco con la convivente) fui esortato a che «l’affidato fosse sottoposto a maggior controllo farmacologico al fine di ridurre il rischio del verificarsi di eventuali/futuri episodi di perdita di controllo». In queste richieste vi è un’affermazione scientificamente inaccettabile: gli psicofarmaci possono controllare in modo totale l’estrinsecarsi della patologia ed evitano il verificarsi dei comportamenti criminosi dei pazienti. Le affermazioni contenute nella sentenza del 2008 stanno avendo conseguenze quotidiane per gli psichiatri e per i loro pazienti. Per le molteplici ragioni che ho provato qui a sviluppare gli psichiatri non diranno mai che gli psicofarmaci non servono a questo e non funzionano così come si vorrebbe. Ecco allora il punto: la responsabilità degli psichiatri non sta tanto nel non riuscire a controllare i comportamenti umani, ma nel credere e nel far credere che questo sia possibile. Bibliografia Bricola F. (1990). La responsabilità dell’operatore psichiatrico: profili penalistici. In: Ariatti R., Lo Russo L. & Melega V., a cura di, I problemi giuridici dell’assistenza psichiatrica dopo la legge 180. Atti dei Convegno, aprile 1990. Bologna: Assessorato alla Sanità della Regione Emilia-Romagna, 1991, pp. 163-168. Benvenuto S. (2021). Lo psichiatra e il sesso. Una critica radicale della psichiatria del DSM-5, Mimesis, Frontiere della psiche, Milano. Cimino L. (2014). Il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: un’analisi critica. Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, VIII, 2: 29-45. Ditta G., Fioritti A., Nuzzolo L., Starace F., Ferraro A., Rosania N., De Feo S. & Mancuso A. (2006). Commissione Interministeriale Giustizia-Salute: gruppo di lavoro per i problemi degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). Roma: Presidenza del Consiglio dei Ministri. Montanari E. (2013). Il nodo della pericolosità tra psichiatria e diritto in Italia. Rivista Sperimentale di Freniatria, 137, 1: 79-94. DOI: 10.3280/RSF2013-001005. Tarantino C. (2014). La strategia della lumaca. Appunti sulla dismissione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. In: Tarantino C. & Straniero A.M., La Bella e la Bestia. Il tipo umano nell’antropologia liberale. Sesto San Giovanni (MI): Mimesis, 2014, cap. 3, pp. 77-96. In: Psicoterapia e Scienze Umane, 2015, XLIX, 3: 447-463. Valvo G. (2012). Il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: la delicata attuazione dell’art. 3-ter d.l. 211/2011. Diritto Penale Contemporaneo, 21 novembre 2012: vedi pagina Internet http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1353279203Valvo%20-%20Il%20superamento%20degli%20ospedali% Vasapollo D., Cimino L. (2021). La responsabilità professionale dello psichiatra tra esigenze di cura e istanze sociali, Linee Guida alla valutazione del danno biologico di natura psichica (DSM-5), Ed. Giuffrè Francis Lefebvre, Milano Note: [1] Vi sono state eccezioni a questo silenzio: la costante attenzione al tema da parte di Psichiatria Democratica, l’interesse di alcuni addetti ai lavori (psichiatri forensi, medici legali e alcuni psichiatri che lavorano presso gli OPG) e il lavoro di una specifica Commissione Interministeriale per il superamento degli OPG (Ditta et al., 2006). A cose fatte pochi psichiatri hanno indicato con precisione i nodi più problematici (Valvo, 2012; Cimino, 2014). [2] È indubbiamente cresciuta in questi decenni, attraverso l’esperienza, la capacità di costruire percorsi terapeutici tra i Servizi territoriali e Comunità Terapeutiche. Esperienze importanti, ma che non consentono alcun trionfalismo; anche oggi non siamo in grado di avere successi terapeutici con tutti i disturbi mentali e in molti casi, ben che vada, otteniamo solo un’attenuazione del quadro clinico. [3] Una curiosità aneddotica. Nel 1975 la Corte d’Appello di Bologna formulò per un caso accaduto sempre a Imola una sentenza storica. I giudici non riconoscevano l’obbligo di custodia (in seguito al suicidio di un paziente internato nel manicomio) in capo al personale medico e paramedico. Occorre ricordare che il contesto legislativo pre-180 prevedeva esplicitamente tale obbligo limitatamente ai degenti in manicomio, ma il contesto sociale e culturale di quegli anni era ben diverso da quello attuale. Autore: Euro Pozzi è Specializzato in Psichiatria nel 1982. Dal 1980 al 2018 Psichiatra presso varie AUSL (Ravenna, Imola, Bologna). Libero professionista dal 2019. Attualmente Consulente Psichiatra presso la Comunità Educativa per minori La Torre (Codess). Membro del Comitato Organizzativo dei Seminari Internazionali di Psicoterapia e Scienze Umane; Membro del Gruppo organizzativo del GIAP (Gruppo Infanzia, Adolescenza e Parentalità) collegato all’AEPEA (Association Europeen de Psychophatologie de l‘Enfant et l’Adolescent). Negli ultimi anni di lavoro presso il SSN si è occupato prevalentemente del Trattamento dei Disturbi Gravi di Personalità nei Servizi Psichiatrici Pubblici. https://www.journal-psychoanalysis.eu/articles/psichiatra-un-mestiere-pericoloso-per-se-e-per-gli-altri/

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