Dequalificazione e insicurezza del lavoro psichiatrico
Dequalificazione e insicurezza del lavoro psichiatrico. Le responsabilità dello stato
Dequalificazione e insicurezza del lavoro psichiatrico. Le responsabilità dello stato
SALUTE MENTALE . L’omicidio della psichiatra di Pisa, Barbara Capovani di 53 anni, dimostra quali e quante sono le responsabilità dello Stato italiano. Uno Stato che ha accumulato negli ultimi decenni, mancanze, sottofinanziamenti e tagli della sanità pubblica, penalizzando maggiormente l’assistenza psichiatrica
Pubblicato 19 minuti fa
Edizione del 17 maggio 2023
Giovanni De Plato
L’assassinio della psichiatra di Pisa non è uno dei tanti fatti da derubricare dopo qualche giorno di cronaca. Esige una riflessione e una chiamata in causa delle istituzioni che ne sono responsabili, altrimenti saranno tristi casi destinati a ripetersi. In sanità sono oltre 5mila le aggressioni subite dai sanitari in un biennio.
Il lavoro in sicurezza è un diritto che riguarda tutti i lavoratori, compresi gli operatori della sanità pubblica e in particolare del settore psichiatrico. L’alta qualificazione dei servizi sanitari e sociali è presupposto della garanzia di operare senza rischi.
L’omicidio della psichiatra di Pisa, Barbara Capovani di 53 anni, dimostra quali e quante sono le responsabilità dello Stato italiano. Uno Stato che ha accumulato negli ultimi decenni, mancanze, sottofinanziamenti e tagli della sanità pubblica, penalizzando maggiormente l’assistenza psichiatrica.
Inadempienze che avvengono con la corresponsabilità dei governi nazionali che si sono succeduti dopo la riforma sanitaria del 1978 della quale in questi giorni ricorre il 45° anniversario. Alle responsabilità dello Stato e dei governi nazionali si sono aggiunte quelle dei governi regionali che tra burocrazia e disimpegno hanno mancato di realizzare i nuovi servizi in forma dipartimentale.
Detto questo c’è da chiedersi come l’assassino avesse potuto premeditare e agire l’agguato senza alcuna restrizione di movimento da parte delle forze dell’ordine, nonostante le pubbliche esternazioni delle sue ossessive e deliranti tesi antipsichiatriche e antisanitari.
La mancata crescita della cultura scientifica nella moderna società italiana dà spazio e titolarità a soggetti, come Paul Seung, di predicare liberamente tesi aberranti. Va denunciato che a distanza di 45 anni dalla riforma del 1978 si continua a omologare il disturbo psichico ai comportamenti antisociali. Si continua a non differenziare la sofferenza mentale, che chiede aiuto e cure, dalla violenza, che sfida la legalità su base delinquenziale.
Come si continua a considerare la parte disfunzionale della mente un contenitore onnicomprensivo dell’intera personalità del soggetto, non considerando che i comportamenti violenti fanno parte della natura umana, da perseguire e condannare. A conferma di questa evidenza viene a supporto il dato che la persona con disturbo mentale può manifestare una condotta aggressiva o distruttiva come qualsiasi altra persona.
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I preconcetti sul nesso causale follia-violenza costituiscono una deformazione concettuale dell’opinione pubblica nella comprensione dei fenomeni. Ritornando al caso di Pisa e limitandolo alla relazione terapeutica, si può dire che da una parte c’è una brava ed esperta psichiatra, Barbara Capovani, dedita completamente alla sanità pubblica e dall’altra una persona con disturbo mentale, Paul Seung, profondamente ingrato e irriconoscente dell’aiuto.
La radicale asimmetria del rapporto terapeutico conteneva già in sé una conflittualità, latente o esplicita, che metteva in evidenza l’impropria delega delle istituzioni alla psichiatra, nel caso specifico il carico della gestione della pericolosità sociale di Seung alla psichiatra Capovani. Una delega istituzionale inammissibile che stravolge il ruolo sanitario della psichiatria, riportandola alle funzioni manicomiali della custodia e della segregazione.
Da qui si pongono due questioni prioritarie che chiamano in causa lo Stato e il suo compito istituzionale di garantire a tutti i cittadini in ogni luogo sicurezza e benessere. La prima questione è la mancata o carente attuazione della riforma psichiatrica del 1978, una riforma che fa scuola nel mondo,ma che lo Stato non ha saputo (o voluto) realizzare secondo le più moderne ed efficaci
conoscenze scientifiche.
Il passaggio dalla psichiatria prescientifica (ospedali psichiatrici e ospedali psichiatrici giudiziari) alla psichiatria di comunità (promozione della salute mentale) è rimasto incompiuto, impedendo così di prevenire, curare e riabilitare i disturbi mentali. La seconda questione è l’approvazione della Legge istitutiva delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) del 2012 e successivo decreto-legge 2014, che attribuiscono le funzioni fino ad allora in capo al Ministero della Giustizia (misure
di sicurezza) al Ministero della salute (gestione della pericolosità).
Stravolgendo il corretto rapporto tra psichiatria, magistratura e forze dell’ordine. Dal 2012 è avvenuto un passaggio non tanto di tutela della salute mentale delle persone responsabili di gravi reati, ma di fatto di delega della custodia dei condannati o in via di giudizio che necessitano di cure psichiatriche.
È davvero preoccupante che un migliaio di persone con disturbo mentale che hanno commesso reati, anche gravi, non abbia la possibilità di essere accolto nelle Rems, strutture insufficienti, male organizzate, con ridotto personale, dequalificate e rischiose per la salute degli operatori e dei ricoverati. Giustamente la Corte costituzionale con sentenza del 19 ottobre 2022 ha richiamato il legislatore ha superare “un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti” nel rapporto tra psichiatria e giurisprudenza.
Prima di Seung sono chiamati a rispondere lo Stato,le istituzioni preposte alla gestione della pericolosità (magistratura e forze dell’ordine), i governi nazionali e regionali e la politica.
L’uccisione della psichiatra Capovani solleva il nodo del rapporto tra psichiatria e giustizia, tra sofferenza mentale, capacità «di intendere e di volere» e pericolosità sociale
Il manifesto