Non avevamo le chat. Non avevamo i gruppi di WhatsApp.
Non avevamo le chat.
Non avevamo i gruppi di WhatsApp.
Non avevamo lo smartphone, i social network e neppure gli sms.
C’era il telefono fisso, ma rispondevano sempre i genitori.
Il massimo della tecnologia disponibile era il campanello di casa, per suonare agli amici e dirgli che li stavamo aspettando.
Ma in realtà non ce n’era neppure bisogno, perché loro già lo sapevano.
Sapevano dove eravamo, sapevano quando era ora di uscire, sapevano chi avrebbero trovato.
Perché in fondo la nostra vita era tutta lì, seduti attorno a un tavolo del bar o sopra una panchina trasformata in seconda casa.
C’era il ritardatario, quello che non sapevi mai quando sarebbe arrivato perché aveva sempre qualcosa da fare.
C’era quella che guardava continuamente l’orologio, perché doveva rientrare a casa presto e accidenti, ho fatto tardi un’altra volta.
C’era il bello della compagnia, che non passava la giornata a farsi fotografare ma gli bastava incrociare uno sguardo per far battere i cuori.
C’era il polemico, quello a cui non andava mai bene niente e aveva da ridire su qualunque iniziativa di gruppo.
C’era la mattatrice, che in un momento di noia collettiva saltava fuori con una proposta che dava finalmente un senso alla giornata.
C’era il pettegolo, che aveva sempre una storia da raccontare; la saggia, che dispensava consigli e suggerimenti anche quando non erano richiesti; il decano, che siccome era nato due mesi prima degli altri si atteggiava a uomo vissuto.
C’erano tutti, allegri e sorridenti, beatamente ignari che quei momenti sarebbero passati velocemente, come l’immagine di un paesaggio mozzafiato ammirato dal finestrino di un treno in corsa.
Eppure qualcosa resta dentro, per sempre.
Cristiano Roscini