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  • 03/03/2024 05:41

Le persecuzioni delle minoranze, una realtà anche di oggi

La Storia è fatta di Memoria, per poter dire “mai più” ai massacri di innocenti. La generosa testimonianza dell’Olocausto da parte dei superstiti (ora sempre meno, perché il tempo passa) ha permesso di consegnare al ricordo collettivo la Shoah. Ma ci sono altri genocidi, e massacri, che sono stati dimenticati. E tutt’oggi popoli e minoranze vengono perseguitati, sfuggendo all’attenzione internazionale. Dai giapponesi criminali di guerra alla minoranza uigura deportata in Cina, ecco un viaggio sui “nuovi orrori”, dal 1945 ad oggi. La seconda parte della riflessione storica e antropologica di Gianni Mattioli e Massimo Scalia PER I CRIMINI GIAPPONESI fu istituito il “Processo di Tokyo” (International Military Tribunal for the Far East, Imtfe, 1946 – 1948), la cui corte e le cui basi legali furono stabiliti dal generale Douglas MacArthur, comandante supremo delle forze alleate nel Pacifico, e che giudicò sulla base di tre tipi di crimini – contro la pace, contro l’umanità, di guerra. Questi ultimi includevano oltre a stermini e torture l’uso di armi biologiche e chimiche contro popolazioni civili, stupri, schiavitù sessuale (le “donne di conforto”), sperimentazione umana, vivisezione e cannibalismo nei confronti di prigionieri civili e militari. Poche le pene comminate, in rapporto alle atrocità commesse, e ancor meno quelle eseguite soprattutto perché molti dei colpevoli divennero “collaboratori” nel completamento del quadro dei crimini. Il fatto che anche i crimini più atroci «quelli del tipo più disgustoso, sono stati tenuti nascosti alla corte dal governo degli Stati Uniti» fu causa di amarezza e stupore per uno dei giudici della Corte, l’olandese Bert Röling, quando, molti anni dopo, ne venne informato (Daniel Barenblatt, A plague upon humanity, Harper Collins, 2004). Al contrario che con la Germania, il cui III° Reich venne abolito, gli Americani scelsero di utilizzare l’imperatore, la sua élite e i suoi funzionari per un progetto di modernizzazione e di smilitarizzazione che sarebbe stato più difficile conseguire senza Hirohito, cui cultura e tradizione giapponese attribuivano un ruolo divino. L’attore di questo compito fu il generale Mac Arthur, che poche settimane dopo la firma ufficiale della capitolazione giapponese, 2 settembre 1945, ricevette all’ambasciata americana di Tokyo l’imperatore e il suo seguito di consulenti e guardie imperiali, e, dicono le cronache, lo apostrofò con la parola “Sir”, che nessuno gli aveva mai sentito usare prima. La foto qui accanto sulla sinistra fu fatta per mostrare ai Giapponesi che Mac Arthur – più alto, più ampio di spalle e più rilassato – aveva più potere di Hirohito, più piccolo, più ansioso e più impettito. «C’è un filo tragico che lega le pratiche di sterminio nei vari capi del pianeta e Amitav Ghosh si rifà a quello operato nelle isole Banda (Arcipelago delle Molucche, ndr) dalla Compagnia olandese delle Indie orientali nel 1621 per assicurarsi il controllo della preziosa noce moscata, una manciata della quale bastava ‘per comprarsi una casa o un vascello’. Più o meno negli stessi anni gli inglesi applicavano ai nativi del Nordamerica la stessa tattica olandese del brandschatting (incendiare e radere al suolo i villaggi contadini) usata nella Guerra dei Trent’anni. E sempre in quegli anni il lord e filosofo inglese Francesco Bacone affermava il diritto degli europei cristiani (‘civili’ e ‘ordinati’) di ‘eliminare dalla faccia della Terra’ i popoli ‘selvaggi’ (exterminare penitus ex caetu hominum et a facie terrae licebit)». «La conquista coloniale, la schiavitù e la razza furono essenziali per l’emergere del sistema capitalista», osserva Ghosh (“La maledizione della noce moscata”, 2022, Ed. Neri Pozza, I Colibrì) in contrasto con il mito del capitalismo come modernità e innovazione. E lo sterminio delle Banda «non fu che un episodio nel processo di colonizzazione, allora in corso su scala assai più vasta dall’altra parte della Terra, nelle Americhe» che portò a uno sterminio delle popolazioni autoctone tra il 70 e il 95%. Il genocidio culturale degli Uiguri, in quanto musulmani, operato dal governo cinese nello Xinjiang con oltre un milione di Uiguri deportato in campi di rieducazione, ha fatto parlare della «più grande detenzione di minoranze etniche e religiose dalla seconda guerra mondiale». Repressione e violazioni dei diritti umani, tra cui sterilizzazione e contraccezione forzata che hanno portato a un forte calo di natalità nelle aree cinesi a dominanza uigura. La persecuzione dei Rohingya, minoranza musulmana nello stato di Rakhine, Ovest del Myanmar (l’ex Birmania), ha una verifica formale nella legge del 1982 sulla cittadinanza, che non li include tra gli oltre 130 gruppi etnici censiti. Non sono cittadini, perciò non è loro riconosciuto il diritto all’istruzione e ci vuole un permesso speciale per sposarsi, viaggiare, cercare lavoro, commerciare, per una visita medica o la partecipazione a un funerale. Arresti arbitrari, confische di beni, tassazione discriminante, violenza fisica e psicologica sono altri elementi di una segregazione che ha trovato appoggio anche in una parte del clero Buddhista, protagonista col “Movimento 969” di un incitamento all’odio nei confronti dei Rohingya. Silente o ambigua la stessa Aung San Suu Kyi. La missione indipendente istituita dalle Nazioni Unite nel marzo 2017 – che aveva il compito di fare luce sulle violenze – oltre alla rilevazione di violazioni del diritto internazionale ha stabilito anche che la leader birmana «non ha usato la sua posizione di capo di fatto del governo, né la sua autorità morale, per contrastare o impedire lo svolgersi degli eventi nello stato di Rakhine». Tutto questo ha portato Amnesty International a revocarle il premio “Ambasciatore della coscienza”, che le aveva conferito nel 2009. Torture, massacri, stermini e genocidi hanno costellato la storia umana, con un crescendo sicuramente quantitativo in quella più recente. E la documentazione della massima parte di queste atrocità non ha avuto un’eco o un risalto generale, risultando quasi sempre circoscritta all’interesse degli studiosi e di pochi. Genocidi senza una memoria. Costante il tentativo di negare, ridurre o ignorare in nome di ragioni ideologiche o politiche, come, per restare in casa nostra, ha evidenziato la vicenda dello sterminio perpetrato sui Giuliano-Dalmati con le foibe “titine” tra il 1943 e il 1945. Massacri operati dall’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia e dall’Ozna, la polizia politica, entrambi diretti da Josip Broz, “Tito”, con molte migliaia di deceduti nelle foibe e nei campi di concentramento. Insieme alla repressione politica su base etnica causarono l’esodo di centinaia di migliaia di Giuliano-Dalmati da aree che erano state d’insediamento italiano sin dai tempi della Serenissima. Una costante di violenza, che «purtroppo continua tutti i giorni tra gli uomini e da parte degli uomini sulla natura», osservava Fabio Balocco, anche lui attratto dalla “maledizione della noce moscata”. Violenza e sterminio hanno assunto di volta in volta, nella Storia Moderna, il volto del capitalismo mercantile e della borghesia “compradora”, del capitalismo industriale base dell’imperialismo moderno e del collettivismo comunista, ma quella “violenza” rimanda a qualche cosa che va al di là della stessa Shoah e degli altri orribili genocidi. Va al di là delle strutture economiche e delle sovrastrutture da esse generate, come anche delle ideologie politiche, filosofiche o religiose nel nome delle quali è stata attuata, e ci fa interrogare sulle sue radici profonde. È stata avanzata l’ipotesi, più che un sospetto, che l’evoluzione del nostro cervello sia stata in qualche modo la prima “tecnologia” scesa in campo, assai prima dell’Antropocene, realizzando un aumento di massa, e quindi di complessità, in un tempo troppo breve. Infatti, la crescita materiale del cervello ha impiegato un paio di milioni di anni per triplicare la sua massa, dall’australopiteco afarensis – ricordate “Lucy”? – poco più di 500 grammi, ai 1500 grammi che contraddistinguono i vari taxa di homo che sono proceduti “in parallelo” (ma ognuno di noi “Cro-magnon” ha anche un pochino di Neanderthal nei suoi geni) fino a trenta-quarantamila anni fa, cioè all’affermazione definitiva dell’homo sapiens attuale. Quei due milioni di anni sono pochi se confrontati con gli oltre 300 milioni di anni che nella loro evoluzione separano i vertebrati amnioti – mammiferi, rettili e uccelli – dal loro ultimo antenato comune. E il fatto che una forte contrazione temporale in un’evoluzione – in questo caso, quella dello sviluppo della massa cerebrale – debba essere guardata con sospetto lo abbiamo imparato dal “brusco” cambiamento indotto dalla crescita in atmosfera della concentrazione di Co2. Ma che c’entra? Beh, tutti i fenomeni suscettibili di una dinamica evolutiva governata da un parametro hanno comportamenti qualitativi simili: a un “brusco” cambiamento nel valore del parametro di controllo corrisponde un cambio di stabilità. È l’ “effetto soglia”, a valle del quale un teorema generale dimostra l’esistenza di “nuove soluzioni”. Nell’ipotesi avanzata, il cambiamento del valore della massa cerebrale in “soli” due milioni di anni ingenera un cambio nella stabilità dell’equilibrio del cervello sia rispetto ai suoi componenti interni che con l’ambiente esterno. In realtà, per essere più convincente questa ipotesi dovrebbe vedere come si è evoluto nella crescita della massa cerebrale il centro dell’aggressività, che alcuni studi pongono in una rete di neuroni nel nucleo premammillare ventrale (Pmv) dell’ipotalamo, una parte del cervello evolutivamente ben conservata che controlla molti degli impulsi di sopravvivenza fondamentali. Lasciando da parte ipotesi e modelli resta però l’impressione di una mente intelligente che nel suo sviluppo non ha avuto il tempo, non è riuscita ad equilibrare le pulsioni aggressive e violente dell’ipotalamo. Ed è così che, già all’alba di questa storia, vediamo che c’è un solo primate che usa il suo sviluppo mentale per dotarsi di armi che si fabbrica – siano pure i chopper dell’Olduvai – per difesa ma, simultaneamente, per offesa dei suoi simili. Come ricorda con immagini indelebili, scandite dal “Also sprach Zarathustra” di Richard Strauss, il pessimismo illuminista di Kubrick con le prime sequenze di “2001: Odissea nello spazio”. (2. fine; la prima parte è stata pubblicata qui il 30 marzo 2023)

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