Perché le piazze pacifiste non chiedono il cessate il fuoco ad Hamas e il rilascio degli ostaggi? Quale abiezione può portare a strappare dai muri i volantini con i volti dei rapiti ebrei e a incendiare le pietre che ricordano chi fu sterminato nei campi di concentramento? Forse perché non sono pacifisti, ma guerrafondai che tifano per gli avversari.
Non ho idea di che cosa debba fare Israele per resistere alla minaccia esistenziale posta da Hamas e per garantire pace e sicurezza ai suoi cittadini, né come debba farlo. So che deve farlo, che è giusto che lo faccia, e che dovrà trovare un modo (che io non conosco) per non allargare ulteriormente la mostruosa carneficina cominciata con il pogrom antiebraico di Hamas del 7 ottobre e continuata con i bombardamenti israeliani su Gaza.
So, inoltre, che cancellare Hamas da Gaza probabilmente non libererà i duecento ostaggi ebrei, ma libererà i palestinesi da una teocrazia medievale, corrotta, e imbevuta di un culto millenarista della morte che nasce dall’incontro tra il fondamentalismo islamico e l’ideologia nazista favorito da un ammiratore di Hitler e Mussolini come Hassan al-Banna, fondatore dei Fratelli musulmani, e da un appassionato lettore dei Protocolli dei Savi di Sion come l’ideologo islamista Sayyid Qutb.
Magicamente, le parole di al-Banna e un passaggio dei Protocolli antisemiti fabbricati dalla Russia zarista per perseguitare gli ebrei sono riportati nel documento di fondazione di Hamas del 1988. Chissà come mai, poi, Hamas agisce con metodi e finalità conseguenti.
Hamas oggi è un’organizzazione eterodiretta da Ayatollah misogini e reazionari che se ne infischiano della questione palestinese, perché impegnati a uccidere le ragazze che si sciolgono i capelli, a finanziare il terrorismo internazionale e a sabotare qualsiasi tentativo di accordo di pace in Medioriente, come quello che per il momento sono riusciti a fermare grazie al pogrom antiebraico eseguito da Hamas il 7 ottobre.
Che fare, dunque? Non lo so, come non lo sa nessuno dei più sensati tra noi.
Lo scrittore tedesco W.G. Sebald in “Storia naturale della distruzione” ha descritto con precisione vivida gli effetti mostruosi del milione di tonnellate di bombe anti naziste sganciate dagli alleati a metà degli anni Quaranta su centotrentuno città tedesche, con i settecentomila civili uccisi e i sette milioni di sfollati rimasti senza casa.
Sebald si interrogava sulle ragioni del rimosso collettivo nazionale tedesco, su «un popolo che aveva assassinato e torturato a morte milioni di esseri umani nei suoi lager» e che quindi «non poteva certo chiedere conto, alle potenze vincitrici, della logica politico-militare che aveva imposto la distruzione delle città tedesche».
Ma il punto è se oggi, di fronte a tale distruzione, scenderemmo in piazza a chiedere il cessate il fuoco, a denunciare il genocidio dei tedeschi, e a inneggiare a “Free Nazi Germany” e al suo Lebensraum, allo spazio vitale che Hitler rivendicava dai Pirenei agli Urali, come Hamas dal Giordano al mare, come se nessun altro avesse diritto di esistere.
Siamo nel Ventunesimo secolo e per fortuna certe cose, come radere al suolo Amburgo o Dresda o il quartiere romano di San Lorenzo o Hiroshima, non sono più moralmente accettabili, almeno in Occidente, anche se sono tuttora brutalmente praticate da Grozny ad Aleppo, dallo Xinjiang a Kharkiv, a Mariupol, a tutta l’Ucraina, e ora a Gaza ma in risposta a un attacco.
Nessuno però scende in piazza per chiedere il cessate il fuoco ai russi, ai cinesi, agli iraniani, a nessuno degli ultimi imperialismi del pianeta. In Occidente si protesta solo contro l’America e contro Israele, considerati più o meno la stessa entità capitalista teleguidata dalla medesima lobby ebraica.
Che si protesti contro sé stessi non è una cosa negativa né banale, anzi dimostra la superiorità della civiltà occidentale rispetto alle alternative che abbiamo a disposizione (prima di indignarsi: la civiltà non è un concetto razzista, ma la forma con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale di uno o più popoli uniti da uno stesso sistema di valori condivisi).
Il problema quindi non è la mobilitazione contro i supposti crimini di guerra commessi da Israele, ma la mobilitazione soltanto contro Israele, la cui particolarità e unicità rispetto ad altri soggetti dello scenario internazionale è che Israele è lo Stato degli ebrei.
Il problema non è il diritto a indignarsi per le stragi compiute da Tsaal a Gaza, ma non manifestare mai contro i responsabili delle stragi islamiste che infiammano il mondo, mai contro Hamas, mai contro l’Isis, mai contro Bin Laden, mai contro gli Ayatollah, mai contro Bashar Assad e il suo complice Vladimir Putin. Mai contro la nuova caccia all’ebreo.
C’è una piccola cosa che rivela come il pregiudizio antiebraico sia tornato a manifestarsi in Occidente in tutta la sua brutale pericolosità anche nel Ventunesimo secolo.
Questa piccola cosa è la pratica diffusa a New York come a Milano, a Londra e in altre città europee, di strappare dai muri i sobri manifesti che ricordano i volti e le storie dei duecento ostaggi ebrei in mano ad Hamas.
Sono giorni che mi chiedo quale stato di degradazione morale possa portare un americano o un europeo al gesto abietto di strappare il volantino che tiene viva la speranza dei familiari di poter riabbracciare un bambino o una ragazza detenuta dagli aguzzini di Hamas?
Non riesco a capacitarmi di cosa possa passare per la mente di un militante per la pace che però è favorevole al mantenimento dello status di ostaggio di un coetaneo ebreo. Non crede che Hamas abbia preso ostaggi? Nega, come certuni a proposito delle camere a gas, che Hamas abbia compiuto la strage del 7 ottobre? Pensa che gli ebrei si meritino di essere uccisi, torturati, stuprati e usati come scudi per proteggere i missili e le armi con cui poter ammazzare altri giudei?
Mi chiedo quanto sia sincero lo sdegno per la tragedia in corso a Gaza se non si dice una parola contro gli sterminatori di Hamas e addirittura si va a strappare i volantini dai muri per cancellare la memoria dei civili ebrei rapiti in quanto ebrei?
La stessa domanda vale per quegli imbecilli che, mentre sfilavano per la Palestina a Roma, hanno bruciato le pietre d’inciampo con i nomi dei deportati ebrei sterminati ottanta anni fa nei campi di concentramento nazisti: che cosa porta a profanare le vittime dell’Olocausto nazista mentre si marcia per la pace?
La risposta a questa domanda è univoca e terribile: a muoverli è il drammatico ritorno nella nostra società dell’orgoglio antisemita. Non che dopo l’Olocausto fosse sparito del tutto, ma erano decenni che non andava di moda ostentarlo.
A conferma, c’è anche l’appello ad Israele, soltanto ad Israele, esclusivamente ad Israele, affinché cessi il fuoco, senza una altrettanto accorata supplica ad Hamas e all’Iran affinché rilascino gli ostaggi e smettano di lanciare i missili su Israele che hanno provocato la guerra.
La storia insegna che le guerre finiscono in tre modi: con il dietrofront di chi le ha cominciate, con la capitolazione dell’aggredito o con la vittoria militare di uno dei due contendenti.
I pacifisti che credono davvero nella pace dovrebbero chiedere ad Hamas di rilasciare gli ostaggi (e alla Russia di tornarsene a casa), altrimenti la migliore opzione per far tacere le armi è augurarsi una celere vittoria militare di Israele (e dell’Ucraina).
Sempre, ovviamente, che non preferiscano rinunciare alla società aperta, piantarla con i diritti civili e vivere in una dittatura teocratica (e imperialista). Nel qual caso, non sarebbero pacifisti, ma guerrafondai che tifano per gli avversari.
Christian Rocca
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