Il peccato originale dell’ora solare
Queste quattro settimane di sofferenza andrebbero eliminate dal calendario, tutto per colpa della peggiore invenzione dell’umanità. Parola anche di Leopardi
Ottobre è il più crudele dei mesi. Da piccola non lo sapevo, un po’ perché non avevo abbastanza confidenza coi poeti da adattarli alle mie esigenze, un po’ perché da piccola tutto quel che succede è la normalità: cosa ne sai, di come potrebbe essere se solo l’umanità avesse strutturato il tempo in modo meno fesso, se solo i tuoi genitori non fossero andati a vivere in un appartamento in cui non c’è luce neanche a mezzogiorno di ferragosto.
Non lo sapevo né gli adulti erano in grado di spiegarmelo: i miei erano un tale nodo di ignoranza e mitomania che non sarebbero riusciti a spiegarmi neanche concetti più lineari, e persino l’analista da cui andai in quarta liceo (durò meno del latte fresco, come tutti gli analisti della mia vita), se gliene avessi parlato, avrebbe di certo mirato male.
Mi avrebbe detto che odiavo ottobre perché conteneva il mio compleanno, e odiavo me stessa, odiavo i miei genitori, odiavo crescere. Non avrebbe mai capito, pover’uomo, che c’era solo una cosa che odiavo, ed era il buio.
Ottobre è il mese dell’ora solare, la peggiore invenzione dell’umanità, la più atroce, più della bomba all’idrogeno, dei tatuaggi, del patriarcato, dei vestiti monospalla, del fosforo bianco, del monopattino, delle gare di cantanti, delle gare di comici, del waterboarding, delle rubriche quotidiane sui giornali.
Sì, lo so che l’invenzione dell’umanità è l’ora legale, mica quella solare, ma l’ora è in sé una (discutibile) invenzione umana, quindi che si fosse stabilito inizialmente che domani, all’ora in cui farà buio, saranno le cinque, quella è l’idea davvero delirante: tutto quel che ne è seguito sono aggiustamenti intorno alla follia principale.
Possono gli esseri umani vivere per mesi in un mondo in cui per metà del pomeriggio è buio? Voi ve lo siete scordato come si scordano i dolori del parto per poi tornare come imbecilli a riprodursi, ma a dicembre farà buio alle quattro. Alle quattro, quando la giornata è a malapena cominciata.
Avete idea di cosa significhi questo per i pisolini? Certo, non cambia niente se siete quell’umanità immaginata dai giornali, quella che il pisolino lo fa di venti minuti perché di più non va bene per le energie e la concentrazione e il sarcazzo. Se, come me, sapete che il pisolino è affare di tre ore, che quei pomeriggi in cui riesci ad addormentarti guai a chi ti sveglia, allora sapete anche che tre ore di luce, nei pomeriggi dell’autunno-inverno, non ci sono. A qualunque ora ti addormenti, ti sveglierai che è buio.
Svegliarsi dal pisolino col buio: vi viene in mente qualcosa di più atroce e devastante? Non ditemi «la guerra»: quella prima o poi finisce, l’ora solare no, lei torna implacabile tutti gli anni, una malattia incurabile e neppure letale, la causa di una mestizia senza fine che ti lascia vivo, vivo e sfibrato, vivo e al buio.
Ma come, diranno quelli che non hanno avuto Leopardi come tema di maturità, se ce l’hai tanto con l’ora solare ottobre dovrebbe piacerti, è l’ultimo mese con qualche barlume di pomeriggio, l’ora solare principia alla fine, l’ultimo sabato d’ottobre. Ingenui.
«Illustri il candidato il senso e il valore del seguente brano attraverso opportuni riferimenti ai Canti conosciuti e alle caratteristiche stilistiche dell’opera leopardiana», diceva la mia traccia di maturità, o almeno così sostiene Google. Non so quindi se la mia certezza che il tema ci chiedesse di dimostrare che Leopardi non era pessimista sia un falso ricordo (l’unica cosa di cui mi fido persino meno che di Google è la mia memoria).
Fatto sta che il brano è un pezzetto di “Zibaldone” in cui il nostro descrive la vita come «il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso, per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso e quivi inevitabilmente cadere». Che è evidentemente l’editoriale del Giacomo ventottenne sull’ora solare.
L’unica cosa che ricordo dell’esame di maturità è che interpretai quell’«attraverso opportuni riferimenti» come decenni dopo avrei visto fare a certa gente che presenta i libri senza averli letti. Mi misi lì e dissi: io che versi mi ricordo di Leopardi? Questi saranno quelli che dimostrano quel che mi chiedono di dimostrare.
E, tra gli esempi che spacciai per utili a spiegare la poetica del tapino, c’era ovviamente “Il sabato del villaggio”, che ce lo ricordiamo tutti adesso che di anni ne abbiamo cento, figurati a diciotto. “Sabato del villaggio” che è, non ditemi che non ci avete mai pensato, una poesia sul perché ottobre sia il più crudele dei mesi.
«Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno». Cioè: la domenica è una schifezza perché la passi a pensare «oddio domani e lunedì e rivedo quel pirla del capufficio». Ecco, ottobre è uguale: lo passi a pensare che sta per finire tutto, che tra un attimo farà buio alle cinque, alle quattro, sempre, cinque mesi di buio ininterrotto come Zalone quando va in Norvegia. Pensiamo all’iva sugli assorbenti, e non all’equità con cui i governi, Amnesty, la dichiarazione dei diritti dell’uomo dovrebbero imporre il letargo da ottobre a marzo.
Ottobre è una domenica del villaggio che dura un mese, una sofferenza di quattro settimane sapendo che il male è incurabile e che finirà malissimo, ottobre andrebbe eliminato dal calendario; e questa minchia di ora solare, se proprio non riusciamo a eliminarla, andrebbe messa a sorpresa.
Una mattina ti svegli, e ti hanno cambiato l’ora senza dirtelo. Sì, qualcuno perderebbe treni, riunioni, lezioni, appuntamenti e pazienze, ma sono problemi minori rispetto alla sofferenza annunciata, rispetto a questo stillicidio di settimane, sta per finire tutto, è già finito tutto, un attimo fa eravamo al mare e cenavamo alle nove ed era pieno giorno, e ora guardaci, qui alle cinque di pomeriggio a dire eh ma questa cosa la faccio domani, ormai è notte.
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