«Io, ex detenuto, vi racconto com’è vivere in un lager della Corea del Nord»

«Ora muoio, ho pensato quando le guardie mi hanno trascinato di fronte al campo delle esecuzioni. Dopo mesi di torture e isolamento, quella mattina ho pensato che stessero per uccidermi. Solo quando ho visto mia madre con una corda al collo, pronta per essere impiccata, e mio fratello legato ad un palo, pronto per essere fucilato, ho capito che non ero io quello che stavano per ammazzare. Sono morti poco dopo. Ma in quel momento non ho provato nessuna emozione. Anzi. Ho pensato che fosse giusto così. Del resto li avevo denunciati io agli agenti». Shin Dong-hyuk è l’unica persona nata, cresciuta e poi riuscita a fuggire da un campo di internamento della Corea del Nord. Come tutti i prigionieri, conosceva bene le regole del Campo 14: «Ogni testimone che non denunci un tentativo di fuga sarà ucciso all’istante». Per questo, quando una notte sentì la madre e il fratello parlare di un piano per scappare, il suo istinto di sopravvivenza gli disse che doveva salvarsi. Tradire i suoi familiari. Fare la spia. Era il suo dovere del resto, quello che gli avevano insegnato fin dalla nascita. E forse avrebbe potuto pure guadagnarci qualcosa. Una razione in più di cibo, magari. Le cose andarono diversamente. Le guardie pensarono che avesse anche lui intenzione di fuggire. Lo portarono in cella e lì lo torturano per mesi. «A quel tempo odiavo mia madre per avermi messo al mondo in un campo di tortura. Oggi invece, se fosse ancora viva, le chiederei perdono». La vita dentro Fino all’età di 22 anni, nella vita e nella testa di Shin non ci sono stati la tv, internet, gli hamburger, gli Stati Uniti o la Corea del Nord. Non sapeva nemmeno se la terra fosse piatta o rotonda. La sua esistenza, da quando era nato, era solo il Campo 14. I giorni tutti uguali. Fatti di violenza e regole da seguire. «Nessuno mi aveva mai spiegato perché stessi là dentro», racconta. «Pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro. Forse per questo non ho mai pensato di fuggire». Quando parla, la sua voce sembra non tradire nessuna emozione. Non gesticola. Sorride poco. Si muove appena. Senza fare rumore. Alla presentazione del volume sulla sua vita, a Milano, arriva un po’ in ritardo. Dice al microfono che gli hanno rubato la borsa e il portafoglio. Ma non ha voluto fare denuncia. Spera di ritrovarlo. Da anni gira il mondo per raccontare la sua esperienza. Il regista Marc Wiese l’ha tradotta nel documentario Camp 14, il giornalista Blaine Harden nel libro Fuga dal Campo 14 (Codice Edizioni, 2014), diventato in breve tempo un bestseller tradotto in 27 lingue. Di fronte alla prima Commissione d’inchiesta istituita dalle Nazioni Unite per indagare sulla catastrofe umanitaria nel suo Paese le sue parole erano intervallate da lunghe pause. A quasi 10 anni dalla sua fuga, il suo corpo è una cartina geografica dell’orrore. Le caviglie deformate dai ceppi per tenerlo appeso a testa in giù durante l’isolamento. Il dorso e le natiche marchiati dalle ustioni. Le braccia piegate ad arco per i lavori forzati. Il dito medio della mano destra mozzato, punizione per avere fatto cadere una macchina da cucire. Il basso ventre forato dal gancio con cui le guardie l’avevano appeso sopra le fiamme, per torturarlo. Gli stinchi bruciati dal recinto elettrificato scavalcato durante la fuga. I suoi genitori si conobbero nel gulag. Tra le baracche. I loro rapporti sessuali erano un premio cui solo i detenuti modello avevano diritto – permessi 5 volte all’anno: una ricompensa per la buona condotta. Dal loro incontro, il 19 novembre 1982, nacque Shin. Che oggi è più o meno coetaneo del dittatore Kim Jong-un. A 32 anni sono le due facce della Corea del Nord di oggi. «Una società nominalmente senza classi – ha scritto Blaine Harde – ma dove in realtà tutto dipende dal sangue e dal lignaggio». Il primo ricordo Un frame del film Camp 14 mostra il momento dell’esecuzione della madre di Shin (camp14-film.com) «Il mio primo ricordo, avrò avuto quattro anni, è un’esecuzione. Quel giorno ero con mia madre. Ci siamo infilati tra la folla, io mi sono fatto largo tra le gambe degli altri detenuti. Per raggiungere la prima fila. Di fronte alle guardie con le armi puntate, c’era un uomo legato a un palo. Per evitare che urlasse, maledicendo magari il governo nordcoreano, gli avevano riempito la bocca di sassi. Poi ricordo un paio di colpi, la morte dell’uomo e il silenzio». Al Campo le esecuzioni erano sempre pubbliche e i detenuti erano costretti a partecipare. Ma a dire la verità «spesso erano considerate un diversivo rispetto alla vita monotona che facevamo». Dei sei campi di internamento nordcoreani, dicono che il 14, quello dove è nato Shin, sia il più duro di tutti. Nascosto tra le montagne e il fiume Taedong, a circa 80 km da Pyongyang. Ma non abbastanza per sfuggire ai satelliti di Google Maps. Le strade, i campi dove avvengono le esecuzioni, le miniere e le baracche compaiono in un paio di clic sugli schermi dei pc di tutto il mondo. Recensiti dai troll, addirittura. Zoomando un po’, Shin ha riconosciuto l’edificio dove è nato. Quello dove è stato rinchiuso in isolamento. Al 14 i detenuti scontano tutti la stessa pena: l’ergastolo. Un luogo dove «amore, pietà e famiglia erano parole prive di significato», ha scritto Harde. E dove «Dio non era né morto né scomparso, Shin semplicemente non lo aveva mai sentito nominare». La fame e la fuga Una scena dal film documentario Camp14, di Marc Wiese (www.camp14-film.com) «Era la mancanza di cibo, non la violenza, il problema più grande al Campo 14». Nel piatto di Shin, per i primi 23 anni della sua vita, ci sono state solo due cose: minestra di cavolo e pasticcio di mais. Tre volte al giorno, 7 giorni su 7. Razioni così misere che capitava di leccare la zuppa che finiva sul pavimento. «Ogni tanto chiedevamo il permesso di prendere un topo. Se la guardia ci dava l’ok, lo catturavamo e lo mangiavamo». A volte invece si riusciva a rubare qualcosa. E i prigionieri lo ingoiavano subito, senza farsi vedere. Perché ancora una volta le regole del Campo erano chiare. «Chi ruba o nasconde cibo sarà ammazzato». Chi sgarrava finiva male. Durante una ispezione, a scuola, una insegnante trovò in tasca a una bambina cinque chicchi di mais. Le ordinò di andarsi a mettere in ginocchio di fronte alla lavagna. Poi iniziò a picchiarla con una bacchetta. I bambini, avevano nove anni, se ne stavano lì a guardare. La testa e il naso della ragazzina iniziarono a sanguinare. Poi crollò a terra svenuta. Shin e i compagni la portarono a casa trascinandola per le braccia. Morì durante la notte. Shin Dong-hyuk insieme al segretario di Stato americano John Kerry il 23 settembre «Un giorno al Campo arrivò un nuovo prigioniero, il suo nome era Park. Mi raccontò di quello che stava fuori. Della Cina, del mondo, della tv. Ma soprattutto dei pasti squisiti e abbondanti che aveva mangiato quando era un uomo libero. Galline allo spiedo, carni arrostite, manzo, riso. Tutte cose che avrei potuto mangiare anche io, se fossi riuscito a scappare». La libertà per Shin iniziò ad assumere la forma di un pollo arrosto. Decise che valeva la pena provare. Il 2 gennaio 2005 i due compagni tentarono la fuga. Park finì fulminato sulla recinzione elettrificata. Shin usò il suo corpo come una sorta di messa a terra e passò dall’altra parte. Arrivò al confine con la Cina dopo mesi di viaggio. Corruppe le guardie e abbandonò il Paese. Dopo alcuni anni raggiunse il consolato della Corea del Sud e si trasferì a Seul. Migliaia di detenuti Da quando è un uomo libero, Shin è stato sottoposto al test della macchina della verità più volte. E il risultato è stato sempre lo stesso. Le cose che dice sono vere. «Tutto coincide con quello che altri ex detenuti dei campi hanno raccontato», ha spiegato al Corriere l’attivista David Hawk, della Commissione Usa per i Diritti umani in Corea del Nord, che ha intervistato decine di ex detenuti e ex guardie. «Non ho mai avuto dubbi sulla veridicità della sua storia». La vita di Shin oggi è fatta di viaggi per testimoniare l’orrore. Come quella delle sorelline Andra e Tati Bucci, bambine ad Auschwitz dal marzo 1944 al gennaio 1945. Che ancora oggi, coi capelli bianchi e le gambe instabili, vanno in giro a raccontare «perché la gente deve sapere cosa è successo, perché non accada più». Invece, accade ancora, a 21 ore d’aereo da Milano. In quei campi di cui la Corea del Nord ha sempre negato l’esistenza. Secondo il governo sudcoreano ci sono rinchiuse 150 mila persone. La cifra sale a 200 mila per il Dipartimento di Stato americano. Chi è dentro spesso non ha nessuna «colpa». Visto che «la fetta più grande della popolazione carceraria è composta dai figli o dai nipoti di detenuti», spiega David Hawk. Perché in Corea del Nord – unico Paese al mondo – esiste una legge che prevede la «Punizione per tre generazioni», istituita nel 1972 dal Grande leader e Presidente Eterno Kim Il Sung. Ed è probabilmente questo il motivo per cui il padre, il nonno, la nonna e due zii di Shin finirono al Campo 14: per «colpa» di due zii fuggiti a Seul ai tempi della Guerra di Corea. Negli ultimi giorni qualcuno ha raccontato a Shin del viaggio a Pyongyang di due politici italiani. «Due parlamentari, credo, non ricordo di che partito», spiega alle persone sedute ad ascoltarlo in una piccola libreria vicino alla stazione centrale di Milano. «Tornati in Italia hanno detto ai giornalisti che la Corea del Nord assomiglierebbe alla Svizzera». In sala qualcuno mormora due nomi. Un signore sospira. Altri sorridono e scuotono la testa. Shin non aggiunge altro. «Sono stati ospiti di un dittatore, non del popolo nordcoreano». Ancora una volta, la sua voce e il suo volto sembrano non tradire nessuna emozione. @fedesene fseneghini@corriere.it Shin Dong-hyuk durante un suo intervento alle Nazioni Unite sito www.camp14-film.com
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