Salario minimo. Opinioni o lotta di classe

Nei mesi estivi ha fatto irruzione nel dibattito politico la questione salariale. Il merito è di Potere al Popolo (Pap), che già in primavera aveva presentato il testo di una legge di iniziativa popolare (servono 50mila firme per poterla presentare) che fissa il salario minimo a 10 euro lordi l’ora (pagati dai padroni). A fine luglio Pd e M5s hanno presentato un loro disegno di legge che fissa la paga minima oraria a 9 euro lordi l’ora (la differenza con il salario fissato dai contratti è pagata con i soldi delle tasse). L’11 agosto si è tenuto un incontro fra governo e opposizioni per discuterlo, ma Meloni ha escluso la possibilità di approvarlo. A metà agosto, quindi, è stata lanciata una petizione on line con la quale i promotori si pongono l’obiettivo di dimostrare al governo che la legge sul salario minimo è sostenuta dalle masse popolari: in 4 giorni hanno firmato 300mila persone. “Tutte firme autentiche e verificate” rispondono i promotori a chi sminuisce il risultato parlando di firme false e doppie. Anche i sindacati confederali partecipano al dibattito, ma con poca spinta. La Cgil si ferma alle enunciazioni: “la definizione del salario minimo è il primo passo di un cammino per la dignità e contro la povertà”. La Uil le si accoda, mentre la Cisl è contraria perché “la legge indebolirebbe la contrattazione collettiva” e “il rischio è che la paga oraria fissata dai contratti sia livellata al ribasso”. La discussione dei mesi estivi ha avuto i tratti tipici del teatrino della politica borghese. Ognuno recita la sua parte a scapito dei lavoratori e delle masse popolari e confusione e intossicazione la fanno da padrone. Al netto di ciò, tuttavia, l’argomento offre alcuni spunti di riflessione sia perché la questione salariale esiste e si aggrava sia perché l’argomento permette un ragionamento più ampio sulla lotta politica in corso. Alcune riflessioni preliminari Nel nostro paese la questione salariale è “naturalmente” e tradizionalmente materia di lotta sindacale. Che irrompa in campo politico è dimostrazione di tre cose. a. I sindacati confederali – che non a caso chiamiamo sindacati di regime – hanno raggiunto il punto più basso della loro parabola in termini di rappresentatività e consenso fra i lavoratori. È del tutto normale: per cinquant’anni hanno fatto tutto quello che era in loro potere per favorire la classe dominante e i suoi governi. Tuttavia non è la forza che manca loro (in particolare alla Cgil), quanto la volontà di condurre una vera battaglia. Sono in difficoltà a mettersi alla testa di una mobilitazione per il salario minimo (anche se Landini si sgola in Tv a sostegno della legge), anche di “soli” 9 euro lordi l’ora, perché sono stati proprio loro a siglare 22 contratti di categoria (su un totale di 63 in vigore) con una paga oraria inferiore! Questo spiega almeno in parte le loro resistenze ad assumere appieno la battaglia: dovrebbero sconfessare il loro stesso operato, andare contro tutto quello che hanno firmato in termini di “contenimento salariale” e sostegno alla precarietà negli ultimi trent’anni. b. I sindacati di regime NON vogliono mettersi alla testa della mobilitazione delle masse popolari. Da cinquant’anni hanno progressivamente smesso di essere i promotori della mobilitazione dei lavoratori, assumendo quel ruolo solo nelle occasioni in cui sono stati costretti a farlo per non essere scavalcati e perdere ulteriore consenso e rappresentatività. I sindacati confederali – in particolare la Cgil – sono fra l’incudine e il martello: non vogliono mettersi alla testa della mobilitazione dei lavoratori perché questo li costringerebbe a rompere con la classe dominante da cui ricevono, direttamente e indirettamente, la possibilità di partecipare “agli affari” attraverso le mille vie con cui si sono progressivamente trasformati in aziende di servizi (dai Caf alla gestione dei fondi pensione e della sanità integrativa); d’altro canto devono cercare di salvare almeno la faccia perché la loro passività è la principale causa della perdita di consenso fra i lavoratori. E di un sindacato che non è rappresentativo e che non è capace di dirigere la mobilitazione popolare per poi spegnerla all’occorrenza, la classe dominante non sa che farsene. E allora addio anche alla possibilità di partecipare agli affari. c. Ai due aspetti precedenti, che riguardano i limiti per cui una mobilitazione di tipo prettamente sindacale e rivendicativo come la questione salariale viene appaltata alla politica, se ne aggiunge un terzo che caratterizza tutti gli aspetti e i campi della lotta di classe in corso. Il marasma in cui siamo immersi è il risultato di decenni di “libera iniziativa economica” dei capitalisti, di menzogne e illusioni rispetto all’autoregolamentazione dei mercati. Ogni problema o contraddizione che si prende in esame è frutto, in definitiva, del primato dell’economia capitalista sulla politica (cioè la politica è oggi subordinata e funzionale al profitto) e può avere soluzione solo dalla politica e nella politica, cioè nelle misure di un governo che agisce e opera per affermare gli interessi delle larghe masse anziché quelli dei capitalisti. Dato il grado di sviluppo raggiunto dal progresso umano non esiste più nessun ostacolo a che la produzione di beni e servizi sia compatibile con condizioni di vita e di lavoro dignitose e con la preservazione e la cura dell’ambiente, come pure non esistono ostacoli alla loro democratica ed equa distribuzione. L’unico vero ostacolo è determinato dalla ricerca del profitto dei capitalisti, il cui presupposto è la proprietà privata dei mezzi di produzione (tutto quello che occorre per produrre e riprodurre le condizioni dell’esistenza umana). *** Nel capitalismo – e a maggior ragione nella fase della sua crisi acuta e terminale – ogni conquista che pure i lavoratori e le masse popolari riescono a strappare ai padroni è parziale, temporanea e contraddittoria. Cioè è limitata alla contingenza (i padroni concedono il minimo possibile), è destinata a essere riassorbita (i padroni manovrano per riprendersi subito quello che sono stati costretti a concedere) e in genere contribuisce a elevare le condizioni di vita e di lavoro per qualcuno a discapito di altri (i padroni cercano sistematicamente di trasformare le contraddizioni fra loro e le masse popolari in contraddizioni fra diversi settori delle masse popolari, di mettere masse contro masse: occupati contro disoccupati, “stabili” contro precari, anziani contro giovani, ecc.). Illusioni socialdemocratiche Chi confida che i salari da fame saranno sconfitti dalla proposta di legge promossa da Pd e M5s può stare fresco. Se non a certe precise condizioni, quella legge non passerà. Lo stesso vale per la legge di iniziativa popolare promossa da Pap. E se pure una legge sul salario minimo fosse approvata, sarebbe elusa e violata il giorno dopo. Questo perché se non c’è un’ampia, capillare e radicale mobilitazione, i vertici della Repubblica Pontificia italiana e i partiti delle Larghe Intese se ne sbattono dell’opinione delle masse popolari. Abbiamo molti esempi che lo dimostrano. La grande maggioranza della popolazione italiana è contraria all’invio di armi in Ucraina, ma né ieri il governo Draghi né oggi il governo Meloni hanno mai rispettato la “volontà popolare” (oltre ai principi sanciti dalla Costituzione), continuando al contrario a spendere milioni di euro per manifestare piena sottomissione alla Nato e agli Usa. Non solo. I vertici della Repubblica Pontificia italiana e le Larghe Intese hanno già dimostrato di violare le leggi ed eludere i risultati dei referendum per consentire affari e speculazioni di ogni tipo: il referendum per l’acqua pubblica del 2011 è solo il caso più eclatante. La Costituzione antifascista del 1948 – su cui pende la minaccia costante di una “riforma” – viene continuamente violata ed elusa in tutte le sue parti più progressiste. In Italia non ci sarà nessun salario minimo garantito per legge senza la mobilitazione dispiegata dei lavoratori e delle masse popolari, senza l’organizzazione e la lotta delle masse popolari. Chi spaccia l’esistenza di una scorciatoia o persino l’esistenza di un’altra strada che non sia la mobilitazione che rende ingovernabile il paese fino al raggiungimento dell’obiettivo è un ingenuo o un imbroglione. La classe dominante spontaneamente non concederà niente alle masse popolari. Nessun governo delle Larghe Intese concederà niente, a meno che non sia costretto a farlo. Non bastano petizioni e “vigile attesa sulle reazioni del governo e del parlamento”. Solo la lotta di classe può cambiare il corso delle cose. Se rivendichi l’aumento di salario fai piangere Fassino Nel pieno della discussione sul salario minimo e durante una seduta parlamentare in cui era in discussione il ripristino dei vitalizi, Piero Fassino sventola la cedola da 4.700 euro mensili netti della retribuzione da parlamentare, omettendo che oltre allo stipendio intasca altre migliaia di euro al mese di benefit, e afferma che il suo “non è uno stipendio d’oro”. Aspetti tragicomici del dibattito politico nella Repubblica Pontificia italiana. Il fulcro del discorso Per ottenere un salario minimo dignitoso, così come per mettere fine all’invio di armi in Ucraina e usare quei soldi per la sanità pubblica, per la scuola pubblica, per l’emergenza abitativa, ecc., NON basta la promessa di nuove leggi: serve prima di tutto un governo che ha la volontà e il coraggio di prendere tutte le misure per affermare gli interessi dei lavoratori e delle masse popolari e che non abbia alcuno scrupolo a usare tutta la sua forza per farlo. In questo senso la soluzione è politica: le principali rivendicazioni delle masse popolari sono il programma del governo di emergenza che serve. Tutti gli organismi operai e popolari, le reti sociali, la miriade di associazioni e organizzazioni politiche e sindacali che operano per affermare gli interessi delle masse popolari devono darsi l’obiettivo di imporre questo governo. Non (solo) con prese di posizione, ma soprattutto attraverso proteste, manifestazioni, iniziative attraverso le quali iniziano ad agire come la situazione di emergenza in cui viviamo richiede. In conclusione, facciamola una battaglia sul salario minimo! Ma per essere efficace essa deve essere concepita nel quadro della più ampia lotta per imporre un governo di emergenza popolare. Solo così sarà efficace. Altrimenti non sarà che una giusta “battaglia di opinione”. Ma le opinioni, come sappiamo, se le porta via il vento. Carc. It
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