La marcia sulla terza Roma di Prigozhin: gli enigmi di un golpe mediatico
Se questo è stato un tipico sabato russo, si preannuncia un’estate senza tregua, se non dal fronte di guerra, quantomeno da quello della comunicazione. Da 36 ore sui social media e sui giornali impazzano ondate di commenti e speculazioni sulla ribellione armata annunciata da Prigožin. Il dibattito è particolarmente vivo qui a Lungansk e in tutto il Donbass, dove il gruppo Wagner hanno imparato a conoscerlo sul campo. Quali gli obiettivi della mossa di questo losco ex cuoco di Putin divenuto generale potentissimo? Perché una risposta tutto sommata blanda e conciliante da parte del governo di Mosca al punto di accettare la mediazione bielorussa?
Durante le fasi più tese della giornata di ieri si sono susseguite le dichiarazioni di sostegno e fedeltà al governo di Putin su tutti i livelli della società russa: dai quadri più vicini come M. Zacharova, vice ministro degli Esteri e D. Medvedev, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza, al metropolita Kirill fino ad arrivare ? K. Malofeev, influente personalità politica dell’ala più conservatrice del panorama russo. Tutte le dichiarazioni riportano l’attenzione sul concetto di tradimento e sull’importanza dell’unità interna. La lotta al nemico comune deve rimanere il punto focale, che deve superare ogni lotta intestina, così le personalità russe: in Russia l’interesse collettivo sembra costituire ancora la base stabile su cui tutti i processi politici possono fare forza.
In una dialettica così allineata e apparentemente cementificata nell’opinione pubblica, la situazione appare più che paradossale, considerando anche la fama eroica che i wagneriani si erano guadagnati durante l’operazione speciale, specialmente dopo la presa di Bakhmut. Gli stessi compagni d’armi si dichiarano disorientati: la maggior parte dei ranghi della Wagner stessa sembrano “non avere idea dei piani della propria leadership” afferma A. Khodakovsky, comandante del battaglione Vostok di stanza a Donetsk.
Se dunque da un lato l’opinione pubblica risulta essere perfettamente allineata, sebbene con toni preoccupati, quasi paternalistici condannando senza riserve l’azione di Prigožin, dall’altro leggiamo una reazione inaspettatamente enigmatica da parte di Putin, il quale non formula attacchi diretti alla persona del comandante della compagnia. Un eccesso di tatto, dopo mesi di dichiarazioni di Prigožin, al contrario apertamente critiche (per usare un eufemismo), nella gestione della guerra e degli armamenti? Rimane difficile pensare a una crisi di questa portata come una sfida a singolar tenzone: piuttosto, andrebbe riformulata l’idea della crisi stessa.
Innanzitutto, il tentato golpe è divenuto tale solo nei resoconti altisonanti dei media occidentali, i quali sembrano aver saltato a piè pari le stesse parole di Prigožin: «Il nostro non è un golpe; non è un colpo di stato militare, ma una marcia per la giustizia». Effettivamente, cosciente sì della fama della Wagner in Russia, ma ancora più consapevole dell’attaccamento dei russi al Presidente e all’unità nazionale, neanche in un eccesso di hybris Prigožin avrebbe potuto pensare di prendere il potere senza l’appoggio di parte della classe politica o perlomeno dell’esercito. Al contrario, destabilizzarlo, riassettarne le posizioni di potere liberando “Mosca da corrotti e bugiardi”, fosse anche in maniera plateale, forse sì.
Lo scenario del braccio di ferro tra poteri forti si fa plausibile anche pensando al fatto che nessun genere di violenza è stata utilizzata da nessun lato dei due schieramenti: vediamo nelle testimonianze video una Rostov non ostile alla presenza dei mercenari e viceversa, e le notizie trapelate di elicotteri abbattuti sono state prontamente smentite. In una situazione di pericolo non sarebbe difficile immaginare una reazione più decisa, in una o nell’altra direzione, a maggior ragione se si volesse dare per buone le indiscrezioni su un’influenza occidentale nella ribellione dei “violinisti”: si prendano ad esempio gli attacchi degli incursori nella regione di Belgorod, piccola ma simbolica crepa sui confini fino ad allora intatti della Russia.
Il fatto discutibile rimane sostanzialmente uno, ossia come sia possibile dopo mesi di malcontento che certi screzi interni non siano stati risolti e soprattutto, perché a un anno dall’inizio dell’appalto della compagnia sul fronte del Donbass, fino ad oggi non sia stato regolamentato il suo impiego. Fino ad oggi, appunto: verso sera, con la mediazione del presidente bielorusso Lukashenko, la “marcia della giustizia” sembra essersi sciolta in un accordo soddisfacente per entrambe le parti. Il governo russo concede l’amnistia, Prigožin viene estradato in Bielorussia, ma soprattutto l’apparato Wagner viene assorbito dall’esercito regolare. Un niente di fatto per gli osservatori occidentali assetati di sangue: col giungere della domenica, santa per il credente popolo russo, questa rocambolesca dimostrazione di forza trova una civile, forse poco ortodossa risoluzione, per regolamentare l’irregolamentabile.
Al tempo della marcia su Roma la storia ci ha mostrato come la combinazione tra una resistenza limitata delle forze dell’ordine, l’instabilità politica e una volontà debole del potere abbia spalancato le porte al colpo di stato. La strada che Prigožin ha scelto per marciare sulla terza Roma si è invece rivelata lastricata di compattezza sul piano politico, militare, e soprattutto, nel bene o nel male, sul piano umano. A quanto pare inaspettatamente, per chi in 36 ore aveva già annunciato la disfatta della Russia.
[di Rossella Maraffino, corrispondente da Lugansk]
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