Sveglia

Giornale d'Alba Al posto della psichiatra massacrata potevo tranquillamente esserci io Al posto della psichiatra massacrata tranquillamente esserci io LETTERA AL GIORNALE Potevo tranquillamente essere io. Donna, psichiatra, giovane, madre (lei tre figli, io quattro). Abbiamo anche lo stesso taglio di capelli. In forza al servizio pubblico, sia in Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, il reparto di degenza, per intenderci) che sul territorio in Csm (Centro di salute mentale, gli ambulatori disposti sul territorio cittadino). Sono giorni che ripeto, in silenzio, nella mia testa: potevo tranquillamente essere io. Però non sono io, è lei. Lei a essere deceduta, a causa di trauma cranico ripetuto, tramite un oggetto contundente (una spranga) utilizzato dall’omicida. Ovvero un paziente, no un ex paziente, no un criminale in libertà, no meglio dire utente forzato (disposizione giudiziaria) del dipartimento di salute mentale pisano (Usl Toscana Nord-ovest). Perché lei e non io? Caso fortuito forse. Ma di pazienti così, nei miei anni di servizio al Ssn (Sistema sanitario nazionale) ne ho visti diversi. Scrivo “nei miei anni di servizio” (pochi, solo 5) perché sono uno dei tanti medici dimissionari dal Ssn. Dimissioni mandate in questi giorni, a ridosso della tragedia che ha coinvolto la collega, della sofferenza piombata sui suoi cari, amici e colleghi; del clamore sociopolitico emotivamente indotto. Magari è anche per questo motivo che “lei e non io”. Può sembrare un’eccessiva semplificazione però non posso non pensarci. Io una giovane medica che, in preda a sconforto e disillusione nei confronti della realtà in cui sono piombata dopo la scuola di specialità, mi dimetto. Lei, con tutta probabilità, una medica che credeva ancora a tal punto nel nostro lavoro da decidere di continuare a spendersi per il nostro Ssn. Già, il senso, il ruolo, la competenza, la responsabilità, i confini, i doveri, i rischi, la cura, la violenza. All’inevitabile amarezza, che accompagna la tragedia, si aggiunge lo sconforto di leggere di questi temi raccontati con una tale confusione e leggerezza, da farmi mettere in discussione tutto il lavoro e il percorso fatti finora. Ma alcune certezze le ho e immagino le avesse anche lei. Ho studiato per 6 anni medicina per imparare a fare il volontariato (nonostante i nostri stipendi, a confronto con gli altri Paesi europei, si avvicinino più a questo) o missione umanitaria, ma perché esiste un Ssn basato su principi sacrosanti di universalismo, uguaglianza e solidarietà (Legge 833 del 1978). Non ho scelto di frequentare la specializzazione in psichiatria (5 anni) perché avevo la velleità di “curare la violenza”. Non ho effettuato alcun corso di autodifesa nei miei studi. Peraltro non mi risulta alcuno studio scientificamente strutturato che dimostri un’associazione significativa tra violenza e disturbi psichiatrici (al contrario di quello che alcuni miei colleghi stanno sostenendo). Sono entrata nel mondo del lavoro, del servizio pubblico appunto, in un contesto medico e sociale in cui grazie al cielo in teoria esiste la famosa Legge 180 del 1978 (legge Basaglia), in cui si presuppone che il compito dello psichiatra sia curare e non custodire le persone affette da disturbo psichiatrico. Si presuppone che il nostro ruolo sia quello di applicare, anche tramite competenze relazionali, conoscenze scientifiche per diagnosticare, curare e assistere con le competenze e i mezzi a disposizione, persone con disturbi psichici (quelli veri, non il malessere sociale, la criminalità, la cattiveria o i turbamenti esistenziali). Adesso l’ondata d’indignazione, superficiale e a tratti ipocrita, mette in discussione la chiusura dei manicomi, il superamento della Legge 36 del 1904 (su manicomi e alienati). Cosa inaccettabile e innaturale. Sarebbe un passo indietro in termini di percorso evolutivo. Come si fa a mettere in discussione il principio per cui le persone con disturbi psichici non hanno meno dignità delle persone con sintomi di altra natura? E ciò, considerando anche l’elevata presenza nella popolazione generale di disturbi psichiatrici. I nostri pazienti sono tanti, siamo noi: l’anno scorso la prima causa di assenza dal lavoro per malattia in Occidente è stata la malattia mentale, compresa la depressione maggiore. Queste erano le certezze, almeno prima di iniziare a lavorare. Poi mi sono scontrata con la realtà in cui versano i nostri servizi di salute mentale. Che sono diventati, anno dopo anno, la fine di un imbuto in cui, a vari livelli, si è deciso di infilare silenziosamente ogni tipo di disagio, mentale e non. In contrapposizione con il senso della legge Basaglia, anno dopo anno, si è deciso di affidare alle nostre “cure” individui “problematici” a livello sociale. In questo calderone sono finiti anche individui lontani dal- l’essere pazienti psichiatrici. E le nostre competenze si sono rivelate lontane dall’essere utili nella “gestione” di questi soggetti. Curarli? Per quale disturbo? Riabilitarli? Con quali strumenti e a quale scopo? Punirli? Custodirli? Eh no, non fa parte del ruolo di un medico o operatore sanitario in generale. Inutile considerare quanto leggera e deleteria sia stata la scelta di chiudere frettolosamente gli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari). Come altrettanto dannose sono le polemiche aleggianti su strumenti di cura essenziali come i Tso (trattamenti sanitari obbligatori). Sono strumenti di cura che solo un medico può valutare e decidere di applicare ma che in certe situazioni possono richiedere l’aiuto e il supporto delle Forze dell’ordine, che negli ultimi anni, complici tali polemiche confusive, spesso hanno trovato difficoltà a rivestire il proprio ruolo di supporto e collaborazione. A questo cambio di rotta sulla considerazione del nostro lavoro, va sommato lo stillicidio di perdita di risorse. Ai minimi storici. Siamo stati spogliati di risorse economiche, risorse di personale e di dignità circa il nostro ruolo e le nostre competenze. Un evento tragico di questa portata, come non trova un senso in chi vive il dolore, altrettanto difficilmente trova una causa. Ma lo stato dei servizi di salute mentale è di sicuro parte della causa. Le istituzioni, a tutti i livelli e correnti politiche, hanno lasciato che si instaurasse una simile situazione nel Paese. Hanno sottovalutato. Dato per scontato. Forse anche per nostra silenziosa complicità: poche proteste, se non consideriamo i licenziamenti (il massimo raggiunto l’anno scorso da quando esiste il Ssn). Per tutto ciò penso sia dovuto che qualcuno si scusi. Letteralmente si scusi con la famiglia e le persone care alla collega deceduta. Si scusi per averla e averci messo in queste condizioni lavorative. Un mio collega più esperto e da più anni in forza al servizio pubblico, in merito a questo, mi ha risposto che dalle istituzioni possiamo aspettarci solo cordoglio e discorsi fumosi che addosseranno responsabilità politiche alle gestioni precedenti. Non so se questa considerazione è più cinica, disfattista o solo realista. In questo caso mi scuso io. Scusateci, se potete. Francesca Barbaro, Monforte
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