Russia : la capacità economica di sostenere il conflitto
In questo articolo continuiamo l’analisi della guerra economica in atto tra Occidente e Russia. Nel primo e nel secondo capitolo ci siamo occupati delle sanzioni occidentali sull’industria bellica e sul mercato esterno russo, questo articolo analizza la capacità economica interna della Russia nel sostenere il conflitto e le sanzioni internazionali imposte al paese. Viene evidenziato come la rigorosa gestione dei conti pubblici, il basso livello di debito pubblico e le consistenti riserve valutarie abbiano contribuito a mitigare l’impatto delle sanzioni e a sostenere l’economia durante il periodo di guerra. Nonostante la contrazione di alcuni settori industriali e la riduzione degli scambi internazionali, vediamo come la Russia è stata in grado di impiegare un saldo significativo delle riserve per finanziare le spese belliche.
Le basi dell’economia russa: il surplus in bilancio
In molti si sono interrogati circa la relativa incapacità delle sanzioni ad infiacchire l’economia russa. Forse si sarebbero dovute fare maggiori considerazioni su quelli che sono i fondamentali economici della Federazione Russa.
In primo luogo, le entrate fiscali russe sono state destinate a finanziare la spesa corrente dello Stato che, onde evitare nuovamente lo spettro dell’instabilità finanziaria degli anni ‘90 (o una dipendenza finanziaria dall’estero), si è autoimposto di non emettere nuovo debito, tenendo trattenuti i cordoni della borsa.
Bisogna sottolineare che la Russia di Putin ha perciò sempre gestito i conti pubblici con straordinario rigore di bilancio (ben superiore a quello applicato in Europa dai “virtuosi” tedeschi o olandesi, che beneficiano delle manipolazioni dei cambi comportate dall’adozione dell’euro), con un bilancio pubblico sempre e invariabilmente in pareggio o in surplus.
Il debito pubblico russo è sempre rimasto estremamente contenuto, nel 2005 ammontava al 16.7% del PIL. Nel 2021, passata una crisi finanziaria internazionale, la crisi dei debiti sovrani in Europa, la prima ondata di sanzioni del 2014 post annessione della Crimea e la pandemia, il debito pubblico continuava ad ammontare ad un misero 17% del PIL russo. Un termine di paragone? Il debito pubblico italiano alla fine del 2021 era pari al 150,3% del PIL.
Gli investimenti del fondo sovrano
Gli introiti russi, derivanti dai surplus di bilancio dei pagamenti (oscillanti tra il 5% e il 10% del PIL) avuti negli ultimi vent’anni, che potenzialmente avrebbero potuto sostenere la spesa interna, sono stati invece accantonati in riserva, venendo reinvestiti dalla Banca Centrale. Dal 2008, gli investimenti furono in parte direttamente legati alle esportazioni energetiche: un fondo sovrano del Ministero del Tesoro, incaricato di investire gli extra profitti derivanti dalle esportazioni petrolifere ottenuti nei periodi di alte quotazioni del petrolio, investì in strumenti finanziari occidentali, da rilasciare invece nei periodi di abbassamento dei prezzi del greggio.
Tale politica ha fatto sì che le riserve russe passassero dai 38 miliardi di dollari scarsi del 2021, ai ben più considerevoli 630 miliardi dichiarati a gennaio 2022, a cui si devono aggiungere i quasi 177 miliardi detenuti dal fondo sovrano alla stessa data. Con tali numeri la Russia è divenuta la seconda nazione al mondo in termini di riserve valutarie accantonate (la prima, ovviamente, è la Cina).
Le conseguenze del rigore
Prezzo del combinato disposto di tali rigorismi è stata una evidente stagnazione del mercato interno, sia in termini di investimenti che di consumi, con un tasso di crescita basso dell’economia russa, il quale per vent’anni è rimasto molto scarso rispetto a quello delle altre economie considerati emergenti o appartenenti al blocco dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), di cui pure la Russia è stata promotrice. Similmente è rimasto sensibilmente più basso il tenore di vita e la capacità di consumo e di poter di acquisto del cittadino russo medio.
Basti pensare che in termini di PIL nominale, al 2021, la Russia non raggiungeva i 1.800 miliardi di dollari, mentre l’Italia (che dalla sua adesione all’euro non gode certo di risultati brillanti) superava i 2.100 miliardi. Una distanza siderale se poi si paragona il PIL con quello americano che al 2021 sfondava il tetto dei 23.000 miliardi o quello combinato dei paesi dell’Unione Europea, oltre i 17.000 miliardi.
La contropartita che il Cremlino si aspettava da tali politiche stava, oltre che nello scongiurare una volta per sempre lo spettro di un nuovo default (risultato ottenuto anche a seguito delle sanzioni), nel costituirsi una sicura base patrimoniale per affrontare periodi di crisi (come appunto una guerra).
Similmente, nonostante il clima di guerra abbia fatto crollare certi settori industriali (in particolare la vendita di auto e l’edilizia), frenando chiaramente la propensione al consumo e bloccando gli investimenti, l’accresciuta domanda di spesa pubblica per la produzione di armamenti ha contribuito a contenere la caduta del PIL.
Una crescita inaspettata
Il reclutamento di uomini per lo sforzo bellico, siano questi chiamati direttamente alle armi o nelle industrie belliche (entrambi premiati con incentivi economici di vario tipo), ha avuto un implicito effetto mitigante rispetto all’impatto delle sanzioni e dalla contrazione di consumi e investimenti. Globalmente il tasso di disoccupazione è sceso dal 4.3% dell’anno di pace del 2021 al 3.9% dell’anno di guerra 2022.
Il PIL russo, dalle previsioni catastrofiche che venivano fatte nella scorsa primavera (si ipotizzava –15% o –20%) ha chiuso il 2022 con una blanda recessione del 2.1% secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, il quale per altro prevede una crescita dello 0.3% nel corso del 2023 (contro precedenti aspettative di recessione anche per il secondo anno di guerra) e poi una più sostenuta crescita dal 2024 che dovrebbe arrivare al 2.4%.
Interessante notare in ogni caso come l’aumento di spesa per sostenere la guerra e i redditi interni, sia sempre effettuata essenzialmente in pareggio di bilancio, cosa resa possibile principalmente grazie all’impiego delle riserve valutarie non sanzionate, cosa che evita di dover ricorrere all’emissione di debito o all’inasprimento della pressione fiscale.
Le spese della guerra e le previsioni per il prossimo triennio
Sebbene la Banca Centrale Russa abbia cessato di fornire comunicazioni circa il dettaglio della composizione delle proprie riserve, continua a pubblicarne i dati sugli aggregati (ignorando di specificare che circa 330 miliardi di questi sono congelati per le sanzioni). In ogni caso, a guardare i dati della Nabiullina, le riserve sono passate da un massimo di 630 miliardi a gennaio 2022 ad un minimo di 541 miliardi a settembre 2022, salvo poi risalire a 597 miliardi a gennaio 2023. Quelle del fondo sovrano da circa 177 miliardi di dollari è sceso a poco più di 140.
Questo significa che la Russia ha condotto un anno di guerra impiegando un saldo all’incirca di 60 miliardi di dollari (circa il 4% del proprio PIL). Nonostante il fatto che la Russia abbia circa 330 miliardi di riserve sanzionate, il paese ha ancora la disponibilità di oltre 450 miliardi di patrimonio da impiegare.
Per altro, le sanzioni, impedendo alle compagnie occidentali di operare in Russia, paradossalmente comportano aritmeticamente un miglioramento della bilancia dei pagamenti russa riducendo il volume dell’import russo, passato da 380 miliardi di dollari del 2021 a 346 miliardi del 2022, mentre l’export è passato dai 550 miliardi del 2021 a 628 miliardi nel 2022. Tuttavia, la Banca Centrale Russa preveda per il triennio 2023-25 una riduzione e stabilizzazione attorno ai 500 miliardi, a causa della normalizzazione dei prezzi energetici.
Vento dell'Est
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