Approvato dal Consiglio dei ministri
I governatori del Sud si oppongono. Colpo di grazia al servizio sanitario nazionale
Inizia la secessione delle regioni più ricche
Il
2 febbraio il Consiglio dei ministri ha approvato, “all'unanimità
e con applausi”, il Disegno di legge Calderoli sull'autonomia
differenziata delle Regioni a statuto ordinario. È il vecchio
cavallo di battaglia fascioleghista del federalismo che inizia a
realizzarsi concretamente, con la secessione delle regioni più
ricche del Centro-Nord dal resto d'Italia, condannando il Mezzogiorno
a vivere in perpetuo nel sottosviluppo e nell'indigenza. Secondo i
tempi previsti dallo stesso ministro degli Affari regionali e
autonomie del governo Meloni, che ha parlato trionfalmente di “giorno
storico”, il suo Ddl sarà approvato entro il 2023, inclusa la
determinazione dei cosiddetti LEP (Livelli essenziali delle
prestazioni), e dal 2024 potranno già partire le trattative per le
intese con le Regioni che richiederanno l'autonomia differenziata,
con Veneto e Lombardia in testa.
L'occasione decisiva per sbloccare questo progetto in gestazione da diversi anni è stata la formazione del governo neofascista Meloni, e il patto elettorale e politico stipulato tra Lega e FdI che prevede la realizzazione parallela dell'autonomia differenziata cara al Carroccio e della controriforma costituzionale presidenzialista e piduista cara agli eredi di Mussolini e Almirante, che hanno ottenuto come contropartita anche lo sblocco dell'aumento dei poteri di Roma capitale. Con il piduista Berlusconi a fare da mediatore tra i suoi due alleati, che ora hanno i numeri in parlamento e 5 anni davanti per realizzare questo duplice e infame progetto in tutta tranquillità, e con in più i voti già promessi di Renzi e Calenda. Non a caso, telefonando ai governatori Fontana e Zaia per annunciare la lieta novella, Salvini ha detto loro con esultanza che “Giorgia ha mantenuto le promesse”.
La
sciagurata “riforma” costituzionale federalista del 2001
C'è da dire però che a spianare la strada all'autonomia differenziata che spacca l'Italia e penalizza le regioni e le masse meridionali sono stati gli stessi partiti della “sinistra” borghese che ora annunciano di volersi opporre, ma che nel 2001 (governi di “centro-sinistra” D'Alema e Amato), per ingraziarsi la Lega di Bossi, realizzarono quella “riforma” federalista del Titolo V della Costituzione che è servita da base ai fascioleghisti per scrivere questa legge tramite la quale puntano ad ottenere per altra via quel che non sono riusciti ad ottenere in decenni di lotte secessioniste.
Il Ddl sull'autonomia differenziata si rifà infatti all'articolo 116 della suddetta “riforma”, che al terzo comma prevede che una lista di ben 23 materie, tra quelle di competenza statale e concorrenti tra Stato e Regioni, “possono essere attribuite ad altre Regioni (cioè tra quelle a statuto ordinario, ndr), con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Quindi i semi della malapianta dell'autonomia erano stati gettati proprio dai governi della “sinistra” borghese. E del resto lo stesso probabile nuovo segretario del PD, Bonaccini, fino a ieri era in prima fila con Fontana e Zaia a chiedere l'autonomia differenziata per l'Emilia Romagna, salvo fare dietro front solo adesso che ci sono in ballo le primarie del PD. Ma meglio tardi che mai. Vedremo se il PD riuscirà a mantenere con la dovuta coerenza la sua attuale posizione contraria anche in parlamento e nelle piazze.
Tra queste 23 materie ce ne sono parecchie di primaria importanza che concernono diritti fondamentali che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti in ugual misura su tutto il territorio nazionale, come la tutela della salute, l'istruzione pubblica, la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali, la tutela e la sicurezza del lavoro, che già sono soggetti di fatto a forti disuguaglianze di classe e territoriali, in particolare tra il Nord e il Mezzogiorno d'Italia, e che lo sarebbero enormemente di più se passasse questa legge, la quale non farebbe che cristallizzare in forma legalizzata queste intollerabili sperequazioni. Vi sono poi altre materie, come i rapporti internazionali e con l'Unione europea, il commercio con l'estero, la ricerca scientifica e tecnologica, l'alimentazione, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia, che costituiscono un corpo unico di importanza strategica per il Paese, e che non possono essere spezzettate tra diverse regioni senza creare conflitti e indebolire l'integrità del Paese.
Parlamento
esautorato da trattativa diretta governo-Regioni
Anche la procedura prevista per la concessione dell'autonomia differenziata alle Regioni che ne facciano richiesta denuncia gli intenti truffaldini di questa legge; per la quale, tra parentesi, è stata scelta la via della legge ordinaria, più sbrigativa e senza le garanzie della doppia lettura parlamentare e del referendum confermativo che avrebbe comportato una legge di riforma costituzionale. La procedura prevede infatti una trattativa diretta tra il governo e la Regione interessata, senza il coinvolgimento del parlamento se non per esprimere “atti di indirizzo” per un'intesa che spetta unicamente ai suddetti due attori e alla quale arrivare in tempi prestabiliti attraverso la fissazione di tempi massimi per ogni passaggio, per un totale di appena 5 mesi prima della trasmissione dello “schema di intesa definitiva” alle Camere per l'approvazione a maggioranza assoluta dei componenti. Approvazione a scatola chiusa, senza discussione né modifiche, sembra di capire, dal fatto che non si parla espressamente di queste opzioni. E in ogni caso c'è sempre a disposizione il voto di fiducia su provvedimento blindato.
Non solo il parlamento non ha alcuna voce in capitolo nel concedere e a quali condizioni l'autonomia differenziata alla Regione richiedente, ma perfino la Conferenza unificata Stato-Regioni, unica occasione in cui le Regioni del Sud potrebbero dire la loro, può solo esprimere un “parere” non vincolante sull'intesa raggiunta. Inoltre la trattativa è condotta direttamente con la Regione dallo stesso ministro per gli Affari regionali e le Autonomie per conto del governo, nella fattispecie Calderoli, e le intese sono discusse nel Cdm sempre alla presenza del governatore della Regione richiedente. In sostanza è come dire che le Regioni del Nord tratteranno con sé stesse!
LEP
minimi, “sovranità fiscale” e zero fondi perequativi
affonderanno il Sud
Nell'articolo 1 del DDL si subordina esplicitamente la concessione dell'autonomia alla preventiva determinazione dei LEP, già prevista dall'articolo 117 del Titolo V e mai attuata in 22 anni. Si tratta degli standard minimi di diritti e prestazioni civili e sociali da assicurare su tutto il territorio nazionale, che non erano neanche menzionati nella prima bozza di Calderoli, e che FI si vanta di aver fatto inserire all'ultimo momento a salvaguardia delle regioni del Sud. Ma si tratta solo di un pannicello caldo che non garantisce un bel nulla, dal momento che i LEP e i relativi costi e fabbisogni standard sono determinati da decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, i famigerati Dpcm, che sono atti amministrativi e pertanto non subordinati al giudizio del parlamento, al quale i decreti sono trasmessi solo per esprimere un semplice parere nel giro massimo di 45 giorni, dopodiché il decreto è approvato dal Cdm (articolo 3).
La scelta del Dpcm è fatta a sommo studio, perché come ha evidenziato l'ex presidente della Corte costituzionale Flick , “i diritti fondamentali non possono che essere disciplinati per legge perché se questa non corrisponde ai parametri fondamentali stabiliti nella Costituzione c'è la via del ricorso alla Consulta, la quale può intervenire solo su leggi non sui Dpcm”. Quindi le Regioni del Sud che intendessero ricorrere alla Consulta per essere state punite dalla probabile fissazione dei LEP al minimo livello possibile sono già state avvisate.
E mentre l'articolo 5 consente alle Regioni più ricche che ottengono l'autonomia di finanziarsi “attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”, cioè di avviarsi verso la tanto agognata “sovranità fiscale”, che consiste nel trattenere sul proprio territorio la parte di ricchezza prodotta che lo Stato redistribuisce verso le regioni più svantaggiate, per queste ultime, dato che non possono contare di attingere ad una ricchezza che non c'è, non è previsto nessun meccanismo certo per evitare di essere penalizzate dall'autonomia e veder aumentare il divario con le regioni più ricche.
Anche perché l'articolo 8 sentenzia che “dall'applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, il che significa che non c'è un euro in più a disposizione del Fondo di perequazione per finanziare l'innalzamento dei LEP e portare le regioni del Sud allo stesso livello di quelle del Nord. Si dice solo che sarà fatto “un utilizzo più razionale, efficace ed efficiente delle risorse disponibili” del fondo (articolo 9), mentre secondo il governatore della Puglia, Emiliano, servirebbero almeno 50-60 miliardi solo per riequilibrare la differenza tra la spesa storica e i LEP.
Sanità,
scuola, beni ambientali e culturali i primi a pagare
Il primo settore a fare le spese dell'autonomia differenziata sarà la sanità pubblica, moltiplicando gli effetti disastrosi già prodotti da decenni di regionalismo e accelerando il suo smantellamento in favore della sanità privata, già adesso in fase avanzata nelle regioni più ricche del Nord: “Il regionalismo differenziato darà il colpo di grazia al nostro SSN”, ha denunciato il presidente della fondazione medico scientifica Gimbe, Nino Cartabellotta. Per il presidente dell'Ordine dei medici, Filippo Anelli, l'autonomia aprirà la strada anche a differenziazioni retributive di medici e infermieri: “Già oggi - ha dichiarato a La Stampa - la mobilità sanitaria è un modo mascherato per finanziare ulteriormente le regioni del nord che ricevono i rimborsi da quelle meridionali. Se a queste sottraiamo anche il personale, che già è inferiore tra il 20 e il 50% di quella del nord, sarà una catastrofe”.
Insieme alla sanità anche la scuola pubblica riceverebbe un colpo demolitore dall'autonomia regionale, con la frantumazione dei programmi scolastici unificati, l'apertura a differenziazioni nel reclutamento, la formazione e la retribuzione del personale (vedi la proposta di pagare di più gli insegnanti delle regioni del Nord fatta dal ministro Valditara), e il deprezzamento dei titoli di studio conseguiti al Sud. Un altro diritto universale importantissimo ad essere scardinato dall'autonomia, rimuovendo più facilmente i vincoli ambientali e culturali che ostacolano la speculazione privata, sarebbe quello della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico nazionali, che invece “va esercitato in modo identico su tutto il territorio nazionale”, come ha ribadito lo storico dell'arte Salvatore Settis denunciando questo federalismo come “il fratello bugiardo della secessione”.
Uniamoci
contro l'autonomia differenziata e il governo neofascista Meloni
Contro il Ddl Calderoli si sono espressi i presidenti regionali del Sud, compresi anche diversi delle Regioni governate dalla destra. 136 sindaci del Sud hanno rivolto per lettera un appello a Mattarella evidenziando le già insopportabili disuguaglianze che penalizzano il Meridione e chiedendo di affrontarle “anziché insistere su un progetto di autonomia differenziata che potrà soltanto acuirle”. Iniziativa a cui Calderoli ha reagito con arroganza minacciando di querelare chi osa affermare che il suo Ddl spacca l'Italia.
La Segreteria confederale della CGIL ha espresso con un documento del 2 febbraio “la propria contrarietà all’ipotesi in discussione di autonomia differenziata e all’ipotesi di superare la centralità del Parlamento in favore di un sistema di natura presidenziale, semipresidenziale o di premierato”. Anche la CGIL-Funzione pubblica, in un documento del 27 gennaio, ha ribadito “il proprio NO a qualsiasi ipotesi di regionalizzazione della scuola e dell’istruzione”.
I Comitati per il ritiro di ogni autonomia differenziata, per l'unità della Repubblica e l'uguaglianza dei diritti, hanno denunciato il progetto Calderoli con un documento del 2 febbraio in cui si sottolinea che “benché possa contare sui voti della maggioranza, questo scellerato progetto può essere fermato, ma non certo solo in Parlamento: solo una mobilitazione di massa, che porti in piazza centinaia di migliaia di cittadine e cittadini, può imporre il ritiro di questo DDL, lo stop al governo”. E L’assemblea nazionale del Tavolo per il NO all’Autonomia differenziata (NOAD), riunita a Roma il 29 gennaio, ha lanciato un appello a tutte le forze sindacali e politiche, in cui si legge: “Se davvero il governo non si fermerà, nonostante le tante voci contrarie che sono cominciate ad emergere, nonostante le prese di posizione di centinaia di sindaci, allora non ci sarà che una strada per evitare il peggio: la convocazione di una grande manifestazione nazionale, che porti a Roma decine di migliaia di cittadini e lavoratori da tutto il Paese, uniti, per il ritiro dell’Autonomia differenziata”. Anche se limitata e parziale, appoggiamo la proposta di legge di iniziativa popolare di modifica parziale del Titolo V della Costituzione.
Noi marxisti-leninisti, che da sempre abbiamo combattuto il federalismo fascioleghista che disgrega l'Italia e divide le masse lavoratrici e popolari, e che abbiamo denunciato l'infame progetto dell'autonomia differenziata fin dal suo primo apparire, non solo aderiamo a questo appello di lotta per affossarlo in parlamento e nelle piazze, ma lo consideriamo parte integrante dell'appello urgente del Comitato centrale del PMLI del 25 ottobre 2022 ad unire tutte le forze anticapitaliste, a cominciare da quelle con la bandiera rossa, riformiste, parlamentari di opposizione, in un grande fronte unito, senza pregiudizi ed esclusioni, contro il governo neofascista Meloni che vuol rimettere la camicia nera all'Italia.