Remigrazione: la nuova parola che nasconde vecchie ombre

Negli ultimi mesi la parola remigrazione è diventata una presenza fissa nel linguaggio politico e mediatico. Viene pronunciata nei talk show, scritta nei post sui social e urlata nei cortei di movimenti di destra radicale. A prima vista suona tecnica, quasi burocratica: sembra indicare un semplice “ritorno” di migranti nei Paesi d’origine. Ma dietro questa facciata neutra si nasconde un significato ben più cupo. In realtà, “remigrazione” è un termine che richiama l’idea di espulsione di massa o deportazione. Non si parla di partenze volontarie, ma di un progetto politico che punta a “ripulire” l’Europa da chi viene da fuori, presentandolo come soluzione ai problemi economici, sociali o di sicurezza. È una parola scelta con cura: evita termini diretti come “espulsione” o “deportazione”, ma ne conserva l’essenza. L’uso crescente di questo concetto non è casuale. Alcuni gruppi e partiti della destra radicale lo hanno trasformato in uno slogan identitario, un simbolo di appartenenza e di forza. In diverse città europee e italiane, si sono svolte manifestazioni dove la “remigrazione” viene invocata come programma politico, con toni che oscillano tra la provocazione e la minaccia. Il successo mediatico del termine risiede nella sua ambiguità. Chi lo pronuncia può sempre dire di voler solo “regolare i flussi migratori” o “favorire il ritorno assistito”, ma nella pratica il messaggio che passa è un altro: riportare indietro chi non è considerato parte della “nazione vera”. È una retorica che rievoca scenari del passato europeo che molti speravano archiviati. In definitiva, remigrazione è la parola che veste di linguaggio moderno un pensiero antico e pericoloso: quello che divide le persone in chi appartiene e chi deve essere rimandato via. Uno slogan che, dietro la maschera dell’ordine e della sovranità, rimette in circolo l’idea di esclusione come soluzione. Progetto Libertà Liberi Uniti contro la Disinformaxione
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