Generazione DSM: la scuola che rischia di creare malati “per decreto”

Negli ultimi anni l’aula sembra meno un luogo educativo e sempre più un ambulatorio. Complice il DSM-V – manuale di riferimento per la psichiatria che ha moltiplicato le categorie diagnostiche – comportamenti comuni vengono tradotti in etichette cliniche. Un ragazzo che si distrae? ADHD. Una studentessa riservata? Disturbo dello spettro autistico. Scarsa voglia di studiare? Depressione. Ansia da interrogazione? Disturbo d’ansia generalizzato. Il risultato è che tutto finisce in un referto. Il linguaggio della scuola, che dovrebbe fondarsi su curiosità, dialogo e crescita, scivola in quello dei certificati e delle procedure. L’alunno diventa un “caso” da incasellare, più che una persona in cammino con punti di forza e debolezze. Gli insegnanti, spesso riluttanti, vengono spinti a farsi “sentinelle” per non rischiare accuse di superficialità. Così il meccanismo si autoalimenta: segnalazioni, valutazioni cliniche, protocolli, burocrazia senza fine. Nessuno nega l’utilità della diagnosi quando davvero serve: esistono situazioni gravi che richiedono attenzione. Ma l’attuale deriva ha superato i limiti. La diagnosi, invece di essere strumento, si trasforma in etichetta permanente che accompagna lo studente per anni. Ed è qui il pericolo: ridurre la persona a una definizione medica. Un ragazzo “con ADHD” diventa solo quello. Una giovane “depressa” smette di essere vista come altro. Le passioni, le capacità, perfino il diritto di sbagliare, vengono oscurati. Quella che emerge è una scuola che non accetta la fragilità, la lentezza, la complessità. Ogni deviazione dalla norma è sospetta e viene medicalizzata. Ma crescere significa anche inciampare, ribellarsi, perdersi e ritrovarsi. Se il compito educativo viene sostituito dalla diagnosi, allora la scuola tradisce la sua funzione più profonda: accompagnare individui liberi, capaci di affrontare la vita con le proprie imperfezioni. Per questo, accanto alla critica di Galimberti verso il digitale e la preparazione dei docenti, va aggiunto un monito: liberiamo la scuola dall’ossessione del referto. Non possiamo accettare che la crescita dei ragazzi sia filtrata soltanto dal DSM, perché così li condanniamo a percepirsi come “malati” a prescindere. La vera emergenza culturale non è solo la mancanza di letteratura o l’eccesso di tecnologia, ma l’invasione del linguaggio clinico nelle aule. Se non fermiamo questa deriva, la scuola rischia di diventare un reparto psichiatrico mascherato da comunità educativa. Sarebbe il fallimento più grave della sua missione. Sanità & Politica
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