IDF, HAMAS, HEZBOLLAH E UNIFIL
IDF, HAMAS, HEZBOLLAH E UNIFIL
di Mario Adinolfi
Mi rendo conto che giornali e tg danno per scontati alcuni termini che rendono difficilmente comprensibili i fatti in corso. E quando i fatti sono una guerra che dura da un anno e si sta infiammando anziché terminare, meglio capire bene per farsi un’opinione. Il 7 ottobre 2023 l’organizzazione palestinese Hamas con il beneplacito del regime iraniano e degli Hezbollah libanesi ha sferrato un attacco a sorpresa contro gli israeliani uccidendone 1.200 e prendendone 250 in ostaggio. Israele ha reagito mobilitando le sue forze armate: Israel Defence Forces, sigla IDF. In un anno Israele ha colpito obiettivi su sette fronti diversi: Striscia di Gaza (territorio di Hamas), Libano (territorio di Hezbollah), Iran, Iraq, Siria, Cisgiordania e Yemen (contro gli Houthi). Particolarmente massiccio e continuo l’attacco contro la Striscia di Gaza dove sono trattenuti gli ostaggi del 7 ottobre. A decine sono stati uccisi, gli ultimi sei corpi di due ragazze e quattro uomini sono stati fatti trovare il 1 settembre 2024. Hamas dichiara che nella Striscia di Gaza gli attacchi IDF hanno ucciso oltre quarantaduemila persone, poco meno della metà sarebbero minorenni. Per Stati Uniti e Unione Europea Hamas è un’organizzazione terroristica, per la maggior parte degli altri Paesi del mondo non lo è.
Dal 28 settembre è stata avviata da IDF anche una guerra territoriale di invasione del sud del Libano, da dove partono i razzi che colpiscono il nord di Israele per volere di Hezbollah. Sia Hezbollah (il “Partito di Allah”) che Hamas (acronimo di ?arakat al-Muq?wama al-Isl?miyya, cioè “Movimento di resistenza islamica”) sono organizzazioni politiche fondamentaliste islamiche, con un’ala militare. A differenza di Israele non sono identificabili con uno
Stato, ma certamente hanno il dominio territoriale e militare rispettivamente del Libano del Sud e della Striscia di Gaza. L’intera area geografica è molto ristretta, così come appare esigua la popolazione coinvolta: Israele ha meno di 10 milioni di abitanti, il Libano meno di 7, la Striscia di Gaza poco più di 2. Sommati sono meno di 20 milioni di abitanti, un decimo dei 200 che abitano ad esempio Russia e Ucraina, altro scenario di guerra. Eppure attorno a ciò che avviene in quel contesto apparentemente ristretto si gioca una partita militare dagli esiti potenzialmente catastrofici per il mondo intero.
E il mondo che fa? Sa bene che la situazione è infetta e non da oggi, infatti dal 1978 l’Onu ha inviato nella regione una sua missione di stanza proprio nel sud del Libano. Si chiama United Nations Interim Force in Lebanon, l’acronimo è Unifil. Coinvolge in questo momento 10.048 soldati caschi blu sotto il comando di un generale spagnolo (succeduto nel 2022 a un italiano). I caschi blu dovrebbero interporsi evitando la guerra tra israeliani e libanesi, ma appena la guerra è iniziata si sono rifugiati nei bunker perché dotazioni e regole d’ingaggio impediscono di fare alcunché. L’Italia nel 2024 ha inviato in Unifil 1.294 persone, tra le 43 missioni all’estero in cui abbiamo nostri militari impegnati (costano più di 1,7 miliardi di euro all’anno) è la più numerosa (e costa 160,57 milioni di euro nel 2024). Il ministro della Difesa, Crosetto, ieri ha dichiarato alla commissioni parlamentari interessate che potremmo “estrarre” dal Libano i nostri soldati in uno o due giorni senza neanche chiedere autorizzazione all’Onu, dimostrando quindi che l’Onu in quello scenario di guerra conta meno di niente. Tenere i soldati rintanati nei bunker o riportarli a casa? Credo che ragioni di sicurezza ma anche di dignità impongano una chiara scelta.
Perché nel frattempo la guerra, quella vera, continua. Otto soldati IDF e cinquanta militanti Hezbollah sono morti nel sud del Libano nelle ultime ore. Israele ha forze armate di leva per 185.000 unità, con 445.000 riservisti. Il 7% della popolazione è sotto le armi, vi entra a 18 con l’addestramento (32 mesi per gli uomini, 24 per le donne) e vi resta fino a 40 come riservista che in ogni momento può essere convocato. Si chiama “ordine numero 8” ed è una telefonata da un numero sconosciuto che intima al riservista israeliano di lasciare qualsiasi impegno immediatamente e presentarsi entro 6 ore al più vicino centro militare, per tornare a fare la guerra. I tassi di diserzione in Israele sono praticamente inesistenti e le regole valgono anche per i cittadini under 40 israeliani all’estero. Devono rientrare in patria e indossare la divisa. Per capirci, con il 7% della popolazione immediatamente convocabile al fronte, è come se l’Italia avesse nelle forze armate quattro milioni di effettivi. Ne abbiamo 160mila.
Insomma, la guerra da quelle parti è una roba brutale e seria, che attraversa la vita di tutti. Che speranza hanno Hamas e Hezbollah di poter battere un gigante militare delle proporzioni di IDF? Apparentemente nessuna, ma hanno due fattori a proprio vantaggio: il controllo assoluto e millimetrico dei territori sotto il proprio dominio; la vocazione al martirio dei propri militanti, nel solco del fondamentalismo islamico. Questo secondo fattore fa sì che le azioni che sembrano scriteriate (perché fare una strage il 7 ottobre contro uno Stato che già sai che reagirà in maniera infinitamente più violenta?) abbiano invece un senso strategico. Il sacrificio di migliaia di vite palestinesi e libanesi serve a ottenere un obiettivo: isolare internazionalmente Israele mostrandone la militare crudeltà, per ottenere lo scopo finale dei fondamentalisti nella regione, che è la cancellazione dello Stato ebraico.
Questa è la partita che si sta giocando e che riguarda tutti noi perché IDF è una forza militare armata dagli Stati Uniti e sostenuta dall’Ue, mentre Hamas e Hezbollah hanno il sostegno diretto dell’Iran oltre che essere spinti dall’odio profondamente antisemita di un miliardo di musulmani, cui si sta aggiungendo quello di una vasta area della sinistra occidentale. Qui da noi una manifestazione (vietata dalla questura) intende celebrare sabato a Roma la strage del 7 ottobre indicandola come “inizio della rivoluzione” e se si legge l’elenco degli aderenti si trovano partiti di sinistra come Possibile (fondato dall’ex piddino Giuseppe Civati), Potere al Popolo (vicino alla lista di Michele Santoro, anche lui già europarlamentare eletto dal Pd), Partito Comunista dei Lavoratori e infinite altre sigle della galassia comunista. Ho già scritto che la distinzione tra antisemitismo e antisionismo, in cui a sinistra si baloccano, è senza senso: in Israele vivono e combattono 10 milioni di ebrei, che in tutto il resto del mondo sono 3 milioni in più. Gli ebrei in Italia sono 30mila distribuiti in 21 comunità, nessuna delle quali si sognerebbe mai di schierarsi contro IDF mentre fa la guerra, qualsiasi siano le valutazioni politiche sul premier Netanyahu, certamente assai criticabile. Ma oggi chi vuole, come Hamas e Hezbollah, la fine dello Stato di Israele in quanto illegittimo Stato occupante delle terre palestinesi, non è antisionista ma antisemita, vuole che gli ebrei non siano nazione e non abbiano una propria patria. Posizione legittima, ma che va chiarita altrimenti si generano inutili equivoci e chiacchiere da cortile, mentre lì fuori la guerra è vera e uccide molte persone ogni giorno, dunque è una cosa seria.
Il Papa ha invitato i cattolici a una giornata di preghiera e digiuno per la pace il 7 ottobre. Seguirò il consiglio, mi pare di certo più utile della missione Unifil. E penserò ai ragazzi israeliani uccisi mentre ascoltavano musica a quel festival, a coloro che sono stati uccisi da ostaggi o ancora sono prigionieri a Gaza (dei 251 presi il 7 ottobre, 70 sono morti, 125 liberati, di 56 non si hanno notizie certe), ai morti musulmani palestinesi e libanesi, all’orribile distruzione che questa guerra sta causando su un territorio che proprio per il suo valore da un punto di vista religioso dovrebbe essere il giardino di pace dell’umanità. Forse davvero solo una preghiera ci salverà.
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