Salute mentale, troppi professionisti “rassegnati”
confesso che la lettera degli psichiatri al Presidente della Repubblica, riportata puntualmente in Quotidiano Sanità, mi ha colpito. E questo non soltanto per il fatto che indirizzarla al Presidente, come avvenuto per altri documenti in passato, ricorda da vicino le domande di grazia, l’ultima spiaggia per chi ha finito ogni possibile udienza. Questo testimonia un problema centrale di cui abbiamo avuto ampi riscontri: la assoluta mancanza di interlocutori credibili, con politici ed amministratori che hanno lasciato cadere nel vuoto o nelle vuote promesse altri drammatici appelli, un aspetto che stiamo continuando a trascurare, specie quando riformuliamo al vento problemi e richieste.
Mi ha sorpreso invece che i firmatari sono 450, un numero per certi versi importante, ma che in termini assoluti segna invece un vuoto. Da un insieme di dati non aggiornatissimi fra OCSE ed Eurostat si apprende che gli psichiatri in Italia sono poco oltre i 12.000, 4.300 dei quali operanti nella rete pubblica e nelle strutture convenzionate. Mancano dunque all’appello 11.600 psichiatri.
E la loro assenza a mio parere è un problema su cui sarebbe opportuno interrogarsi.
Immagino la difficoltà di fare girare un documento e raccogliere firme, e penso che i 450 siano già un successo, anche perché è solo una parte di chi avrebbe firmato, lasciando immaginare un valore certo più alto di quello che però, di fatto parte da un 4% del totale.
È un divario è molto grande, che mi spinge a formulare varie ipotesi esplicative, tutte abbastanza preoccupanti per i problemi che indicherebbero.
La prima è che non sia così facile firmare per chi è dipendente dal SSN. Conosco bene i tanti vincoli, espliciti ed impliciti, che le amministrazioni pongono alla espressione di un corretto diritto di critica, dove viene confusa la doverosa lealtà nei confronti dell’ente di appartenenza con la pretesa di un silenzio complice su quello che non funziona. Questa condizione che rappresenta di fatto un limite non solo alla democrazia, ma soprattutto al pensiero, è diventata con il tempo qualcosa che regola “ovviamente” i comportamenti ed entra senza obiezione nei regolamenti, perdendo quel carattere di ingiustificato sopruso che invece è la sua parte essenziale.
La seconda è che l’universo della psichiatria comprende, ed ora sempre di più, le ampie galassie della psichiatria privata, poco sensibili alle sofferenze del servizio pubblico - che anzi rendono florido questo ambito - e lontane dal dramma delle risorse, del rischio neo-manicomiale e dalle imposizioni di controllo sociale. E su questo aspetto, della esistenza cioè di mondi della psichiatria non separati solo da impostazioni ideologiche, ma da una diversa collocazione in rapporto alla centralità insostituibile del servizio pubblico, credo sia importante riflettere in futuro, anche perché non sono mondi marginali, ma anzi numericamente preponderanti,
Il terzo è che ho la percezione che sia avvenuto un progressivo appiattimento della psichiatria su una logica molto pragmatica, che mira solo a gestire la quotidianità. ll confronto dialettico fra la psichiatria e gli altri ambiti della medicina ha fatto evolvere la medicina molto meno di quanto certa medicina abbia invece pervaso la psichiatria. In questa graduale trasformazione l’ha svuotata di quell’essere orgogliosamente sul confine fra biologia, mente e società, e, senza proteggerla dalle immutate richieste sociali di controllare sragione ed anormalità, l’ha costretta in un contenitore che deve gestire ed uniformare comportamenti, ove la cultura viene ridotta a procedure e la scienza alla quotidianità di una organizzazione fragile. La stessa richiesta da parte delle amministrazioni di una logica dove predominano ragionamenti contabili e programmazioni che arrivano al massimo a domani tende a spegnere quegli orizzonti più ampi ed innovativi a cui ambiva la psichiatra in passato.
Il quarto è l’impressione che, in questo quadro di difficoltà, l’università stia alla finestra, sempre più distaccata, chiusa nel proprio sapere su menti chiuse in rigidi crani, con la difficoltà di cogliere che il mondo reale dove le ricerche devono trovare concretezza rischia di essere distante ed inaccessibile, fastidiosamente privo dei casi puri richiesti dalle regole di inclusione nei trial, e drammaticamente contaminato dalle tante variabili legate alla quotidianità di servizi ed utenti, al di fuori di qualunque protocollo di ricerca. La mente ci ricorda sempre alla fine di come non si limiti al cranio e tantomeno ai nostri costrutti nosologici, ma viva nel mondo, nelle relazioni e nei loro problemi.
Ma forse bisogna prendere atto che un periodo si è chiuso, che per le nuove generazioni di psichiatri la specificità della psichiatria conta meno di un bisogno di integrazione per omologazione all’andamento generale del SSN, e che Basaglia sta diventando solo una immagine per un francobollo commemorativo, in una epoca in cui l’automatismo di timbratura delle poste e delle tabaccherie ha trasformato i francobolli solo in oggetti per collezionisti.
Alla fine, nonostante le migliori premesse ed intenzioni, tanti operatori sono stati segnati dal progressivo impoverimento dei servizi, come risorse e come capacità di trovare una qualche spinta al rinnovamento, schiacciati fra una legge che prometteva un mondo ideale ed una realtà che suggerisce a malapena la sopravvivenza. Questo ha leso la possibilità di vedere orizzonti più ampi, a rendersi conto di dove effettivamente si collochi, oltre al quotidiano, quello che si fa quotidianamente. Sono non adesioni che non implicano opposizione alla idea che la situazione sia drammatica ed occorre fare qualcosa, ma solo una rassegnazione che cerca di sopravvivere in un condizione che si teme immutabile.
Per cui credo che, per venire fuori dal progressivo sfacelo della salute mentale in Italia, sia importante raccogliere le 450 firme, ma anche domandarsi come coinvolgere nel problema quel 96% che non ha firmato.
Andrea Angelozzi
Psichiatra
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