Fenomenologia alzo zero», un libro per indagare sulla crisi della psichiatria
Napoli, lo psichiatra Gilberto Di Petta: «Fenomenologia alzo zero», un libro per indagare sulla crisi della psichiatria
Napoli, lo psichiatra Gilberto Di Petta: «Fenomenologia alzo zero», un libro per indagare sulla crisi della psichiatria
Cloe, Alessandro, Amalia, Rambo: le storie del Servizio psichiatrico dell'ospedale di Pozzuoli dove lo specialista lavora
«Ho un reparto esplosivo di anime irrequiete, insonni, vaganti. Mi sento un funambolo che deve provare a raggiungere una sponda lontana, cavalcando un abisso. Noi, psichiatri del Novecento, chi siamo se non esseri-sempre-in-bilico, curatori fallimentari di esistenze che rovinano, esperti della precarietà, noi, che lavoriamo con le mani nude, medici senza macchine e strumenti, lettori della mente senza tracciati, cantastorie». È Gilberto Di Petta, napoletano, classe 1964, neuropsichiatra e psicopatologo, responsabile del Spdc dell’ospedale di Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli, a firmare la dichiarazione d’esistenza di uno psichiatra oggi, nel libro «Fenomenologia alzo zero. Il corpo a corpo tra la follia e la cura», edito da Quodlibet. L’autore analizza la pratica contemporanea della psichiatria, tratteggia le origini, descrive il cambiamento avvenuto, denuncia il suo svuotamento, la guerra, vera e propria, combattuta durante il Covid, e narra casi di umanissima follia.
Nel buio della notte, nel pronto soccorso dell’ospedale di Pozzuoli, Di Petta cuce e ricuce storie come un romanziere, ma di romanzato non c’è nulla, solo vita vera e cruda: Cloe è prigioniera del suo complotto di cui i medici sarebbero complici; Alessandro è uno psicotico che trascorre la vita ascoltando il ritmo del proprio cuore; Amalia ha cercato la morte bevendo Lysoform; Rambo è uno psicotico nomade che, durante il Covid, violava la quarantena e, al consueto saluto «Ciao Rambo!», rispose «Dottore, adesso sono Padre Pio, giro il mondo per combattere il virus»; Carlo è, invece, un padre che ha perso la figlia di vent’anni per un cancro e non riesce più a sostenere il dolore. Questi incontri «ad alzo zero» (tratto dal linguaggio militare, vuole indicare un incontro a cortocircuito, tremendo e sublime, del corpo a corpo) sono fatti, appunto, di «carne viva, dolente, sperante, angosciata, allucinata, delirante». E di questa materia così varia e pulsante, che abita ciascuno di noi, ci parla Di Petta.
«Dov’è Franco Basaglia? Dov’è la fenomenologia? Dov’è la psicoanalisi? Sono rimasto un semplice “medico dei matti”, ad occuparmi dei peggiori, tossici, criminali e pazzi di manicomi. Abbraccio il mio fallimento. Il mio naufragio». Partendo da questo smarrimento di cui scrive, cosa vuol dire fare lo psichiatra oggi?
«A quasi mezzo secolo dalla riforma psichiatrica, una delle più intelligenti e civili del mondo occidentale, siamo rimasti soli. Parlo dal punto di vista di un reparto di psichiatria, un Spdc (servizio psichiatrico diagnosi e cura), gli unici rimasti in Italia a fronteggiare la salute mentale (ce ne sono meno di 300 e in ogni regione si chiamano diversamente). Negli anni hanno però smesso di funzionare 24 ore, come prevedeva la legge 180, non hanno più centro crisi, domenica e festivi sono chiusi. Il risultato è che l’utenza che ha un problema corre al pronto soccorso, perché ha la certezza di trovare uno psichiatra che lo valuti e ascolti. La solitudine di cui parlo non riguarda solo la mia storia di psichiatra in un pronto soccorso che serve un’area di mezzo milione di abitanti, ma la solitudine della psichiatria dentro la medicina. È l’unica branca che non dispone di un apparato strumentale, esami di laboratorio, quindi, una volta fatti gli accertamenti che escludono l’organicità, ci si ritrova di fronte a un paziente che per la medicina non ha nulla. Solo la letteratura, la poesia, la filosofia possono restituire ciò che i dati non restituiscono».
Nella «Lettera a un giovane specializzando» scrive: «Sarai un sarto di camisoles de force chimique per situazioni da tenere sotto controllo quando scoppiano. Farai il pompiere della follia» e che la psichiatria è caduta in «un baratro di uniformità, standardizzazione e appiattimento».
«Quando Philippe Pinel aggregò la psichiatria alla medicina vigeva una visione olistica del corpo umano. Questo matrimonio esogamico è stato giusto, affinché persone con esistenze drammatiche potessero ricevere riconoscimento, dignità, diritti. Ma la psichiatria non ha ancora scoperto in cosa il cervello affetto dalla più grave malattia mentale sia diverso dal cervello di una persona normale, facciamo diagnosi ancora sulla base del precetto galenico ippocratico “observatio et ratio”. Noi siamo tra il “non più” e il “non ancora”: non abbiamo più l’apparato che proviene dalla fenomenologia e dalla psicoanalisi e che rappresentava il bagaglio umanistico dello psichiatra, e non abbiamo ancora l’apparato strumentale che ci consente di dire “questo è uno schizofrenico” così come “questo è un cardiopatico”. Mancando entrambe le direzioni, umanistica e biologica, come può quel futuro psichiatra comprendere l’esistenza della persona malata? È la crisi della psichiatria a livello mondiale».
Alcuni capitoli del libro sono dedicati al periodo del Covid, una vera guerra combattuta sul campo che fece sorgere un dubbio: «È la follia di una pandemia? O la pandemia di una follia?».
«Siamo stati sbaraccati e deportati come gli ebrei del ghetto di Varsavia. Una mattina ci hanno sequestrato il reparto per destinarlo ai malati di Covid. Per due anni abbiamo avuto posti letto ridotti, in un sottoscala. Abbiamo vissuto al contrario quel fenomeno per cui, in Europa, finita la peste, i lazzaretti, costruiti nelle periferie delle città, vennero riempiti di pazzi che non potevano più vagare per le strade delle città industrializzate. La pandemia si è svolta all’insegna del “noli me tangere” e, quindi, distanza, schermatura. Ma come potevamo entrare in contatto con il paziente attraverso gli scafandri che indossavamo? O bloccare fisicamente una persona agitata? O mettere una mano sulla spalla? Impensabile!»
Dopo gli ultimi e tanti tragici eventi di cronaca, su tutti la morte di Giulia Cecchettin per mano di Filippo Turetta, la salute mentale è tornata al centro di un dibattito collettivo. Il risultato è che, pur essendo sulla bocca di tutti, nessuno la sa maneggiare?
«Dobbiamo abbandonare l’illusione di poter ingabbiare la follia in un reparto, in un manicomio o con una diagnosi. In questo tornano prepotentemente Basaglia e Pinel, due grandi umanisti, ma anche i secoli precedenti alla psichiatria che hanno conferito un senso magico, mistico e demonologico alla follia. La storia di Giulia e Filippo ha sconvolto perché l’autore dell’omicidio non è stato un uomo di 45 anni con pensieri frustranti, che impazzisce e uccide. Ma un ragazzo con tante possibilità di rifarsi una vita. Mostra, quindi, una società che sta fallendo in termini di aspettative, desiderio e frustrazione della realtà e che non educa i figli maschi alla fase adulta. Nelle culture primitive c’erano i riti di iniziazione, poi c’era il servizio militare, oggi quando un ragazzo diventa uomo? Per la donna è diverso, c’è la comparsa delle mestruazioni e l’eventuale gravidanza. L’idea diffusa è che l’essere umano sia fondamentalmente buono. Ci dimentichiamo che, dentro di noi, c’è un potenziale assassino, uno psicopatico che normalmente sonnecchia, ma può venire fuori».
Qual è il messaggio ultimo di questo libro?
«La richiesta stremata di incontro. È un libro scritto di notte, con storie che si svolgono di notte. Sono moltissime le persone che proprio di notte, essendo sole, hanno l’impulso di buttarsi dalla finestra, poi, riescono ad arrivare al pronto soccorso e l’incontro con qualcuno salva loro la vita. Per la medicina non hanno niente, eppure ti ricavi un angolino, resti a parlare fino all’alba con uno che si voleva ammazzare, poi se ne va, ti abbraccia e ti ringrazia. Tu in fondo cosa hai fatto? Hai solo messo un cuore in mano a un altro cuore
Corriere del Mezzogiorno
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