Salute mentale, le contraddizioni del modello italiano
Salute mentale, le contraddizioni del modello italiano
di Andrea Angelozzi
Gentile Direttore,
una serie di interessanti interventi, ospitati recentemente da Quotidiano Sanità, riporta alla attenzione alcune contraddizioni presenti nel modello attuale di salute mentale in Italia.
La prima contraddizione è fra una psichiatria che cercava di ricostruire una storia della sofferenza patologica, di trovare cioè nella temporalità della vita del paziente un significato, ed una psichiatria che, come già il manicomio con i suoi reparti, in realtà trasforma ogni tempo in spazio, nella successione di reparti che il paziente transitava nella evoluzione del suo malessere. Questa spazializzazione della durata, per rubare il termine a Gabel (1962) che lo cita come uno degli elementi della falsa coscienza, ha trovato poi forma nelle varie strutture che compongono il Dipartimento. Il paziente viene condotto a percorrere le varie strutture come fossero i vari reparti della catena di montaggio tayloristica, alla ricerca di un progressivo assemblaggio di salute. I momenti di cura diventano i luoghi di cura ed alla fine ciò che rimane solo solo collocazioni, dove le attività (che potrebbero essere fatte anche altrove) passano in secondo piano rispetto all’essere inseriti in un luogo, che sia il CSM o SPDC o i centri diurni o le le varie tipologie di comunità.
La seconda contraddizione è fra una legge, come la 180/78, che aveva una tensione ideale per cui, cancellata la istituzione, si cancellava cronicità e stigma, ed una realtà in cui cronicità e stigma continuano a prodursi, ponendo un problema importante per la gestione di situazioni che richiedono una lungo assistenza. Cancellata la istituzione manicomiale, luogo principe per la cronicità (anche se la permanenza media era inferiore rispetto alle attuali permanenze residenziali) allo psichiatra spetta ora trovare altri luoghi, sapendo che sono cambiate denominazioni e dimensioni, ma la logica è uguale. La produzione, al di là di quanto ci si aspettava, continua a produrre “resti” ed il problema è dove metterli. In fondo, quando il Veneto istituisce le RSSP, strutture per pazienti che hanno alle spalle 10 anni di fallimenti riabilitativi e che non hanno alcuna scadenza di permanenza, non fa altro che esplicitare in forma palese che la operazione di chiusura dei manicomi ha fallito il suo obiettivo, ma sono stati chiusi e questo pone un problema di collocazione.
La terza contraddizione è quella legata alla Legge 81/2014 che afferma di completare la Legge 180/78, che cancellava la pericolosità come criterio per l’intervento psichiatrico, riaffidando persone socialmente pericolose alla psichiatria, come suo compito ovvio. In comune con la L.180/78 porta la illusione che si possa risolvere la istituzionalizzazione chiudendo le grandi istituzioni, che i comportamenti socialmente problematici siano solo l’esito di stigma, rifiuto sociale e cattiva gestione, che la comunità curi tutto e perfino nei tempi stabiliti dal magistrato. Ma ancora una volta il ruolo della comunità produce solo luoghi, che ci sono e che non ci sono, ed il tema della collocazione continua a dominare l’operare psichiatrico.
La quarta è quella di una psicologia popolare (e degli amministratori) che non è in grado di distinguere quello che è ragione da quello che è psichiatria, per cui alla psichiatria si affida tutto: violenti comunque, barboni senza casa, minori che non hanno un luogo dove poter esser ricoverati, accumulatori seriali, e coì via. E la psichiatria che rivendica la purezza del proprio intervento clinico deve fare i conti con una realtà dove i pazienti portavano la biancheria da lavare ai CSM, dove gli si dava un pasto “terapeutico" per dargli un pasto, dove telefonavano al medico di guardia perchè pioveva in casa per colpa del tetto e la psichiatria doveva “interfacciarsi” con il comune. E nessuno pensi che sto inventando. Alla fine, per chi percorso questi 45 anni dalla Legge 180/78: “questi occhi hanno visto cose che voi umani potete solo immaginare”, ma che ci portano alla situazione attuale.
E queste contraddizioni non si risolvono purtroppo chiedendo maggiori risorse, più Rems o trincerandosi in un approccio puramente clinico, o per converso in una romantica visione socialese della malattia mentale. Queste contraddizioni fanno parte della storia della psichiatria, che ha sempre cercato di mettere insieme le tante parti di cui è fatto lo star male mentale, ma che non solo non c’è mai riuscita, ma di fatto, nel non avere identità, è diventata in Italia semplicemente il contenitore di istanze molto diverse che prendono di volta in volta il sopravvento, per motivi del tutto estranei al benessere dei pazienti.
Qui non si tratta più di mettere toppe: manca il tessuto a cui attaccarle. Qui bisognerebbe mettersi a discutere seriamente di Legge 81/2014, della Legge 180/78 e di come è stata declinata e trasformata dalle varie riforme sanitarie e per ultima dalle modifiche del titolo V con le autonomie regionali in materia di sanità. Ma la stagione delle grandi riforme è passata da molto tempo e siamo nella stagione che si limita a cambiare le forme della invarianza.
Andrea Angelozzi
Psichiatra
Quotidiano Sanità
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