Testimonianza di un infermiere che lavora in Pronto Soccorso
Pubblichiamo la nota di un redattore del quotidiano Infermieritalia, un collega che lavora in Pronto Soccorso e che ci lascia una testimonianza profonda di quello che è diventato il lavoro in PS oggi.
“Ore 21, inserisci le credenziali e controlli le liste: 20 pazienti in attesa, 26 in visita, 4 ambulanze in arrivo. La sala d’attesa che pullula di persone. È solo l’inizio dell’ennesima notte al Triage.
Ore 24. Sono passate 3 ore, anzi volate, tra ambulanze che ti hanno portato pazienti più o meno gravi e pazienti deambulanti che non riescono a trovare risposte dal territorio e decidono di ricorrere al Pronto Soccorso.
Tra un triage e l’altro controlli la lista delle persone in attesa e cerchi di capire se gli esami che hai effettuato da protocollo siano negativi e se la sintomatologia di presentazione si sia attenuata o acuita.
Continui instancabilmente ad inserire quel bimbo che ha la febbre da qualche giorno, l’habitué, le forze dell’ordine che ti portano l’ennesimo soggetto in stato di agitazione magari in abuso di alcool o sostanze.
Poi senti squillare il telefono portatile. È quello del 118 che ti avverte dell’arrivo di un codice rosso. E, prima di rispondere alla chiamata, nella tua testa, parte lo scongiuro che non sia una cosa così grave.
Annunci il codice rosso neurologico, poi un altro traumatologico. È da lì la lista d’attesa si allunga.
Bussano insistentemente alla porta del triage. È quel signore con un trauma della mano che, incazzato, ti inizia ad urlare contro: “Io quando vado dal medico di base in 1h e mezza ho fatto e sono a casa. Ma i medici visitano? Ma state facendo qualcosa o rubate lo stipendio?“ e ti tocca chiamare la vigilanza per cercare di calmarlo.
E giù di lì anche gli altri sembrano trovare il “coraggio” di lamentarsi, innescati proprio da quel soggetto arrabbiato. E, quindi, ti dicono:
“Io è da 4 ore che aspetto, ma i medici ci sono?”
“Vi sembra di lavorare in maniera adeguata? 6 ore di attesa per fare una radiografia”.
“Possibile che mi passano tutti davanti? Sono tutti gravi in questo Pronto Soccorso“?
Dall’altra parte invece c’è chi ti vede correre, passare da un paziente all’altro, rispondere alle preoccupazioni e alle domande più svariate, magari mostrando un sorriso. Sorriso che è l’ultima arma che ti è rimasta per combattere l’aria pesante che si respira, nonostante i condizionatori.
E sono proprio quei pochi che si accorgono di quanto sia difficile il nostro lavoro che magari ti dicono: “non ci ero mai stato in PS, certo che non vi fermate un secondo. E poi, quella parola che ti fa sempre piacere: “Grazie per quello che fate e per quello che mi avete fatto”.
Vedi i medici che annaspano nel caos più totale mentre riguardano quell’anziano ipokaliemico e con l’anemia al quale devono trovare un posto letto, consci del fatto che gli faranno opposizione per qualsiasi cosa.
Li vedi arrancare quando, dal triage gli porti in ambulatorio quel Codice 2 che va visto in fretta. E, ancora, li vedi arrancare quando devono districarsi tra i 1000 telefoni che suonano, gli specialisti che gli dicono: “bene , parla con tizio e caio e poi trovagli un posto letto”, oppure quando il parente entra in ambulatorio e inizia ad aggredirli e aggredirci.
È così passa il tempo che a volte sembra inesorabilmente lento, specie di notte. Tra una rivalutazione e l’altra, tra chi ti urla contro perché stufo di aspettare, tra quelli che aspettano disinteressati e quasi distaccati finalmente la visita medica. E te che urli dentro perché comprendi che qualcosa, nel sistema sanitario, effettivamente non funziona. Qualcosa di sbagliato c’è e ormai è diventato tardi per riparare le crepe che si sono create.
Ormai sono le 6 del mattino e ti manca solo 1 ora per terminare un turno faticoso, l’ennesimo dei tanti da quando lavori in Pronto Soccorso.
Sembra quasi la normalità ormai. Ti meravigli quando tutto sia andato per il meglio.
Con le ultime forze mi avvicino a quel paziente in attesa da 4 ore, per rivalutarlo per la 3 volta. Sembra quasi di conoscerlo. Gli chiedo come sta, misuro i parametri vitali e, di rimando, mi chiede: “Quanti ne ho ancora davanti prima di essere visitato? Mi spiega come mai ci vuole così tanto?”
Vorresti spiegargli le mille motivazioni dietro quell’attesa estenuante e lunga ma, ormai stanco mentalmente più che fisicamente, ti limiti a dare la risposta più scontata tra tutte ma che è la fotografia della realtà: “Sa, stanotte sono venute tante persone, c’è tanto casino (il solito). Lei comunque se avesse bisogno di qualsiasi cosa ci faccia sapere”.
Finalmente sono le 7, ti dirigi verso lo spogliatoio, ti cambi in fretta e ti metti in auto.
Allora cerchi di allontanare i pensieri negativi, mentre ti allontani verso casa, mentre pensi a quella coppia di anziani ai quali hai prestato assistenza e che sono riusciti a tornare a casa, a quei parenti ai quali hai dato notizie positive e, magari, gli hai ridato un po’ di speranza. Ripensi ai tuoi colleghi che ti sostengono e ti supportano (e sopportano) sempre, senza i quali i turni sarebbero più pesanti di un masso che cade su un fiore.
Ed è in quel preciso istante che i pensieri negativi ti ripiombano addosso, come un pugno in pieno stomaco. Ripensi ai familiari ai quali hai dovuto comunicare la perdita di un figlio, al sudore versato per provare a salvarlo e alle lacrime che ti sono cadute ma che, dopo qualche minuto, hai dovuto mettere da parte, per continuare a quel ritmo inesorabile e frenetico. Ritmo che non ti permette di fermarti.
Pensi che, giorno dopo giorno, turno dopo turno, questa professione che è quella che avevi scelto e nella quale nutrivi grandissima passione, ti sta consumando inesorabilmente.
Qualcuno l’hai visto già ammalarsi ed andare in burn-out, un parolone che tanti non vogliono neppur sentire nominare ma che li colpisce come una doccia fredda in pieno inverno.
Allora mi chiedo: “Cosa c’è di sbagliato a voler abbandonare questa professione e a guardarsi intorno per cercare qualcosa di diverso”? E capisco perché tantissimi colleghi, sparsi in tutta Italia hanno fatto questa scelta. È impossibile non comprenderli.
Capisco anche perché molti giovani preferiscono prendere una strada diversa dalla laurea in Infermieristica.
Così come diventa difficile, agli occhi dei non addetti ai lavori, comprendere chi decide di continuare, chi cerca di provare a migliorare la situazione lavorativa in cui versano i PS italiani. Chi, come il sottoscritto, continua a dare il meglio nonostante le aggressioni, i turni massacranti, il :”ma come fai a lavorare in quella bolgia?”, le incazzature, la cronica mancanza di personale e di risorse.
E, forse più importante tra tutti, il tuo distaccarti emotivamente dalla maggior parte delle situazioni. Si, lo so, forse anche questo è un piccolo passo verso il burnout.
Ma, in tutta questa negatività, riesci a cogliere qualcosa di inspiegabile, quell’ancora che ti tiene fermo e che ritrovi nel sorriso dei tuoi colleghi, nella gioia dei pazienti che riabbracciano il proprio marito, la propria madre, il proprio fidanzato, il proprio fratello, nella soddisfazione di aver dato il meglio.
Virgilio,
Infermiere di Pronto Soccorso
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