Psichiatria, ancora violenze e aggressioni, il diritto a lavorare in modo sicuro
Sanità24
Psichiatria, ancora violenze e aggressioni, il diritto a lavorare in modo sicuro
Lo scorso anno l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani a Pisa, poi l’aggressione violentissima a L’Aquila alla sua collega Francesca Pacitti, ora un altro atto di violenza a Montedomini a due passi da Firenze, un vero e proprio ‘sequestro’ di una psichiatra e di una infermiera, durato quasi un’ora, e poi centinaia e migliaia di altre spinte, aggressioni fisiche e minacce verbali, ormai ordinaria amministrazione per oltre metà del personale che lavora nel campo della salute mentale. La percezione del rischio è profondamente peggiorata nel corso degli ultimi anni e rappresenta uno degli elementi di fuga degli operatori dal servizio sanitario nazionale. I numeri nazionali e generali sono noti (16 mila aggressioni nel 2023, un terzo fisiche e due terzi verbali, nel 70% ad operatrici, ad opera di pazienti o parenti), ma anche drammaticamente sottodimensionati per le poche denunce su casi meno violenti, ma non per questo meno gravi. Ancora più pesanti sono quelli che riguardano l’ambito della salute mentale. La psichiatria, infatti, secondo i dati Anaao-Assomed è la branca della medicina più colpita: il 34%, seguita dai pronto soccorso (20%). Dati confermati da una recente indagine del Coordinamento Nazionale dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), su 2600 professionisti della salute mentale, di cui 1400 psichiatri, Il 49% ha subito violenza (dalla semplice spinta all’aggressione vera e propria) durante il lavoro nel corso degli ultimi due anni (il 27% più di una volta), il 74% ha subito minacce verbali da parte di pazienti durante il lavoro nel corso degli ultimi tre mesi (il 52% più di una volta), il 57% degli psichiatri sente a rischio la propria incolumità sul lavoro. E naturalmente c’è una netta prevalenza del genere femminile. Quindi merita a pieno titolo la connotazione di violenza di genere.
“Karl Marx notava come i fenomeni storici si ripetano: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. La nuova aggressione subita dai colleghi a Montedomini è un evento grave, che non avrebbe dovuto verificarsi – spiega la presidente SIP, Liliana Dell’Osso –. E invece lo ha fatto, nonostante la morte di Barbara Capovani, nonostante i tentativi di sensibilizzazione circa le tragiche condizioni lavorative dei medici, nonostante le richieste di aiuto. Sono seguiti messaggi di solidarietà, ma nessun cambiamento pragmatico”.
“Vi sono almeno tre necessità da risolvere, prima che si verifichi un altro omicidio – aggiunge Emi Bondi presidente del Coordinamento SPDC e presidente uscente della Società Italiana di Psichiatria –: adeguare il numero di posti letto per acuti che attualmente risultano insufficienti, ai bisogni della popolazione e sono in continuo calo per la chiusura di molte strutture a causa della carenza di operatori; trovare una soluzione legislativa per coniugare il diritto alle cure adeguate per i soggetti autori di reato con patologia psichiatrica e la sicurezza degli operatori, e – infine – creare spazi di ricovero adeguati per rispondere ai bisogni di cura emergenti di pazienti sempre più giovani con problematiche nuove spesso connesse all’uso di sostanze stupefacenti”.
“Il problema della collaborazione delle forze dell’ordine e in generale della sicurezza sui luoghi di lavoro non riguarda infatti solo la (imprescindibile) incolumità degli operatori – precisa la prof. Dell’Osso – ma impatta anche sul loro modo di lavorare e riguarda in generale anche il mandato della psichiatria. Perché se gli operatori sanno di poter essere tutelati lavorano meglio e ricorrono di più a strategie relazionali e meno ad approcci interventistico-coercitivi”. “È necessario anche lavorare a riprogettare l’organizzazione del sistema sanitario, perché – aggiunte la dr.ssa Bondi – la situazione attuale è frutto di vent’anni di mancati investimenti e di una progressiva riduzione del personale, degli spazi e della sicurezza”.
“La criticità della situazione è dunque nota – aggiunge la prof. Dell’Osso – e non ci sono più scuse da parte dello Stato per non agire prontamente, se non l’indifferenza e il ritenere la morte o le lesioni agli operatori un rischio calcolato e accettato. E questa prospettiva noi non possiamo permetterla, come psichiatri e come esseri umani: la prima volta è stata una tragedia, non permettiamo che diventi una farsa”.